Yiddish, la Lingua dell'Esilio
L’8 dicembre del 1978 il premio Nobel per la Letteratura venne attribuito a Isaac Bashevis Singer (nato in Polonia nel 1902 e morto negli Stati Uniti nel 1991): era il primo, e finora l’unico, Nobel per la lingua yiddish. Il discorso tenuto da Singer in quel giorno contiene alcune fra le più belle e note definizioni di questa lingua: lo yiddish è “una lingua di esilio, senza terra, senza frontiere, non difesa da nessun governo, una lingua che non possiede parole per le armi, le munizioni, le esercitazioni militari, le tattiche di guerra”.
Lo yiddish, la lingua dolce e gutturale degli ebrei dell’Europa orientale (ma tuttora diffusa, pur nei suoi piccoli numeri, in tutti i cinque continenti), la lingua assassinata nei forni crematori dei nazisti, annichilita nelle purghe staliniane, fino a non moltissimi anni fa era quasi del tutto sconosciuta nel nostro paese, persino in ambiente universitario (come sa, per esperienza diretta, chi scrive…). Poi, in seguito all’ “onda lunga” del successo di un libro epocale di Claudio Magris (Lontano da dove. Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale, del 1971) e grazie alla successiva opera di divulgazione fattane da teatranti, scrittori, musicisti, editori, giovani studiosi e traduttori, lo yiddish ha, almeno per qualche verso, trovato casa anche in Italia, dove, negli anni Novanta, si parla addirittura di un “boom dello yiddish”.
Oggi chi voglia sapere di questa lingua e della sua cultura dispone, anche nel nostro paese, di un gran numero di testi e informazioni. Peccato solo che una politica che tende sempre più a premiare i grandi numeri ne abbia reciso la maggior parte di corsi e insegnamenti universitari. Dunque un “radicamento” che è anche decisamente “sradicato”. Forse, chissà?, non era possibile altrimenti, forse questa sorta di perenne incertezza è in qualche modo interna al patrimonio genetico di questa lingua di poveri, di rivoluzionari e di sognatori.
Una lingua di poveri, di rivoluzionari e di sognatori
Di poveri: lo yiddish, detto anche, in modo fra il tenero e lo sprezzante, la mameloshn, la lingua della mamma, era infatti considerato un dialetto volgare, caratterizzante le masse oscure e incolte. Solo l’improvviso nascere, alla fine dell’Ottocento, della grande letteratura yiddish è stato in grado di modificare, seppure a fatica, questa situazione.
Di rivoluzionari: la sinistra ebraica in Europa centro-orientale aveva scelto questo “dialetto” a sua bandiera. La lingua proletaria e senza frontiere era il simbolo dell’internazionalismo, della dignità del proletariato, della possibilità di coesistenza di culture diverse. Ne abbiamo parlato lo scorso aprile in un convegno organizzato dal Dipartimenti di Lingue e Culture Moderne, dal Centro culturale Primo Levi di Genova e dalla Associazione Studi Ebraico-Tedeschi “ayn-t”, dal titolo: Per il socialismo, per la libertà. Il Bund: storia di ieri, memoria di domani. La storia e il lascito dell’Unione generale dei lavoratori ebrei di Lituania, Polonia e Russia (è possibile vederne la registrazione sulla pagina Facebook del Centro Primo Levi).
Di sognatori: perché è difficile, parlando di yiddish, non pensare alla malinconia, all’instabilità, all’insicurezza che caratterizzavano tanta parte del mondo yiddish, all’atteggiamento di sognante rinuncia dei luftmenschen (gli uomini d’aria, che commerciavano e vivevano d’aria, e che abitavano gli shtetl, i villaggi e le città dell’Europa orientale), espresso in tanta produzione letteraria, in tante canzoni.
Yiddish a Genova
Al momento, a mia conoscenza, esistono solo due corsi universitari di questa lingua e cultura: uno, assai strutturato, proposto dall’Università di Bari e condotto da Marisa Romano, e un altro, di sole 18 ore che, sempre nell’ambito delle attività a scelta, ho condotto a Genova. Il tentativo – una sorta di scommessa – ha attirato un numero non piccolo di studenti e uditori esterni. Grazie a una lavagna interattiva, abbiamo imparato a scrivere in yiddish, a riconoscere e leggere testi molto semplici, e a cantare una canzone popolare. Abbiamo anche avuto modo di studiare, nelle grandi linee, lo sviluppo della letteratura yiddish, e alcuni elementi fondamentali della cultura e della ritualità ebraica. È stata una piccola goccia nel mare magnum di questa tradizione, ma anche, forse, la conferma di quanto detto da Singer in quell’ormai lontano 1978, a Stoccolma:
C'è chi dice che lo yiddish è una lingua morta, ma lo stesso si è detto dell’ebraico, per duemila anni. E questa lingua è risorta in modo straordinario, quasi miracoloso. […] È un dato di fatto che i classici della letteratura yiddish sono anche i classici della letteratura ebraica moderna. Lo yiddish non ha ancora detto la sua ultima parola. Contiene tesori che non sono stati rivelati agli occhi del mondo. Era la lingua dei martiri e dei santi, dei sognatori e dei cabalisti – ricca di umorismo e di memorie. In modo figurato, lo yiddish è la lingua saggia e umile di tutti noi, l'idioma di un’umanità piena di paura, e di speranza.
Laura Quercioli Mincer è Docente di Slavistica presso il DLCM.
In copertina: prima testimonianza datata in lingua Yiddish nel Mahksor del 1272. Fonte: Wikipedia (pubblico dominio).