No son 30 pesos, son 30 años. Sul Cile, oggi

No son 30 pesos, son 30 años
Non sono i 30 pesos, sono i 30 anni


Questo è uno degli slogan spesso scanditi dai manifestanti che forse meglio rappresenta la complessità della situazione che sta vivendo il Cile nelle ultime settimane. Apparentemente, tutto è cominciato il 18 ottobre, quando centinaia di persone hanno cominciato a protestare contro l’ennesimo aumento del biglietto della metropolitana, saltando i tornelli e mettendo in atto quella che è stata definita una #EvasionMasiva.
Come spesso ripetuto dai tanti manifestanti intervistati dai media più diversi, la protesta in realtà è (perché è ancora in corso) contro la fortissima disuguaglianza ancora presente in Cile. Se è vero – come argomentato ancora recentemente da molti – che il reddito pro-capite è uno dei più alti della regione e che l’indice di Gini (uno dei più diffusi indici di diseguaglianza) è sceso di una decina di punti negli ultimi venti anni circa, è pur vero che si deve continuare a lavorare anche e oltre ai 70 anni perché la pensione non arriva a 90.000 pesos (110 euro), che per curarsi in modo decente occorre rivolgersi ai privati, che la sanità pubblica è estremamente carente (e comunque l’indice di Gini del Cile continua ad essere uno dei più alti al mondo, dati World Bank). Ogni giorno ci sono marce e cortei, concerti pubblici nelle piazze in solidarietà coi manifestanti. Marce e cortei spesso pacifici e festosi, fra i tanti basti pensare alla “marcia più grande del Cile”, con circa un milione e duecentomila persone in piazza.
Su ogni dieci manifestazioni, solo due (fonte Carabineros) sono state macchiate da saccheggi, barricate e lanci di oggetti (provocati da poche decine di soggetti mascherati) contro esercito e Carabineros.

Il Governo ha da subito represso ogni forma di dissenso – anche pacifica – con una violenza che ha destato enorme preoccupazione: la dittatura, da queste parti, è ancora storia recente. Il Presidente Piñera, in una dichiarazione delle prime ore, ha improvvidamente dichiarato che “il Paese è in guerra contro un nemico potente e implacabile che non rispetta nulla e nessuno”. Violenza non solo verbale, giacché in soli otto o nove giorni in Cile si è superato il numero di lesioni oculari a causa dei proiettili sparati da polizia ed esercito, rispetto a zone del mondo come Afghanistan o Palestina che da molti più anni stanno vivendo situazioni “complicate” (fonte New York Times).

Il dubbio, lecito, è che i feriti non siano stati colpiti accidentalmente, ma volutamente. Il bilancio di queste settimane? Tra il 18 ottobre e il 25 novembre, secondo dati emanati dagli stessi Carabineros, più di 4 milioni di manifestanti, 15.184 arresti, 998 civili feriti, 1.896 feriti (127 gravi) tra i Carabineros.
Dati gravi, specie se integrati da quelli ribaditi dall’INDH (Instituto Nacional de Derechos Humanos, ente finanziato con fondi pubblici ma indipendente dal potere esecutivo, legislativo o giudiziario), che parla di 26 morti sospette, 7.259 arresti e 2.985 feriti, con 232 lesioni oculari. A ciò si aggiungano le tantissime denunce (167) di stupri e violenze subite nelle caserme o in locali della stessa metropolitana adibiti a “sale della tortura”, e le 148 denunce di persone – spesso donne e bambine – costrette a denudarsi in attesa degli interrogatori.
A parte i numeri (pure importanti), ciò che resta è un profondo senso di rabbia e scoramento da parte dei cileni, ma anche la volontà di trasformare il Cile in una società più giusta e solidale, a partire dalla richiesta di superare la Costituzione del 1980, eredità della dittatura.

di Paolo Parra Saiani