Vito Acconci, fare del tempo
Vito Acconci, uno degli artisti, poeti e architetti statunitensi culturalmente più influenti degli anni '70 e ’80 èdeceduto nella sua New York nel quasi totale silenzio del mondo dell’architettura e dell’arte. Anticipò molto di ciò che sarebbe stata l’arte e l’architettura dei nostri giorni.
Figlio degli Stati Uniti post-'68, Vito Acconci (24 gennaio 1940, 27 aprile 2017) fu tra i primi a mescolare arte, poesia, multimedia, auto-referenzialità, multidisciplinarietà, critica, teoria, caos, provocazione, pornografia. Sé stesso e spettatore. Perfezionista, pessimista, vedeva in ogni cosa il suo aspetto negativo, vivendo una costante ansia. In un video, Centers (1971), si filmò puntando il dito, per 20’, verso il centro di una TV: lo spettatore. La TV era lo specchio.
Nel ‘72, «Domus» 509 esprimeva la tensione culturale di quella generazione in una copertina realizzata dai 9999: cupola brunelleschiana, a colori, volante tra i rami di un bosco metafisico. Germano Celant firmava un articolo su l’ancora poco noto Acconci, tra i pochi non italiani presenti in questo numero. Opera, quella acconciana, che inaugurò il primo numero della mitica rivista October (1976), con un articolo di Rosalind Krauss: “Video: L’Estetica del Narcisismo”. Krauss spiegava come il gesto di puntare il dito verso lo schermo (specchio) avesse una qualità parodica, con un debito all’ironia duchampiana: “Mentre guardiamo l'artista che ci osserva, puntando il braccio e l'indice verso il centro dello schermo che stiamo guardando, quello che vediamo è una tautologia sostenuta…”
Nel contesto della NY degli anni '70, Matta Clark, I.A.U.S., Eisenman, Raimund Abraham e teorici come Frampton, in una tensione tra critica, politica, arte, architettura, Acconci s’interessò sempre più all'architettura. Fondò nel 1988 il collettivo Acconci Studio, con artisti e architetti.
Vito rifiutava il bollino d'artista (“Non ho mai amato l'arte!”) e quello d'architetto. Per Acconci, in modo contemporaneo, non vi erano distinzioni tra queste arti, e insisteva sul parlare “dell’oggi, ora, adesso”, del progettista di spazi e non del suo passato artistico. La sua carriera d'architetto gli regalò meno successi, malgrado progetti d’interesse. Seguì possibilità di crisi per l'architettura, unendo energie, persone, sistemi.
Non conobbi Vito. Entrambi caotici, bulimici, tra cose da fare, appuntamenti, viaggi e urgenze, non riuscimmo mai a vederci. E, dopo un po', smettemmo di scriverci. Una delle ultime frasi che mi scrisse fu “we can find time, make time” (possiamo trovare tempo, fare tempo) per incontrarci. Ma non lo trovammo. È un'espressione "fare del tempo" che mi è rimasta. La parte di Vito che mi è rimasta nel linguaggio. Lui, Vito, il tempo lo faceva, sì. Fece avanguardia, ma non si trasformò in artista contemporaneo, non ne fece un mestiere, come non fece il “mestiere dell’architetto”, bensì, architettura. Ciò che dovremmo fare tutti, senza bollini e senza compartimentazioni.