La scienza che non sa più vedere: una crisi silenziosa della conoscenza

Katia Cortese
Katia Cortese al microscopio elettronico

Sovrapproduzione, automazione e immagini sintetiche stanno oscurando l’atto fondativo del vedere nella ricerca scientifica

La scienza moderna deve gran parte delle sue conquiste alla capacità di vedere oltre i limiti sensoriali dell’occhio umano. Dalla lente di Galileo al microscopio di Hooke, l’atto del guardare è stato, e resta, un fondamento epistemologico, una forma di pensiero.
Eppure oggi, nell’epoca dei big data, delle immagini sintetiche e dell’automazione sempre più estrema e ricercata, si profila un paradosso: abbiamo più immagini scientifiche che mai, ma sempre meno sguardo. Produciamo dati visivi in quantità vertiginose: microscopi ad alta risoluzione, piattaforme automatiche, intelligenze artificiali generative. Ogni giorno migliaia di articoli scientifici vengono pubblicati nel mondo. Eppure, nonostante questa iperattività, numerosi studi mostrano un declino nel potere della scoperta: le ricerche veramente dirompenti, quelle che aprono strade nuove, sono oggi statisticamente più rare rispetto a metà Novecento. La scienza avanza, ma spesso in trincee sempre più strette. L’iperspecializzazione, l’ansia da prestazione bibliometrica e la sovrabbondanza informativa rendono difficile vedere nel senso pieno del termine: collegare, interpretare, immaginare oltre il dato. Un’immagine, da sola, non basta. Serve qualcuno che la guardi con occhi competenti. Durante la pandemia da COVID-19, questa crisi è diventata tangibile. Molti studi affermarono di aver identificato il virus nei tessuti umani tramite microscopia elettronica. Ma in numerosi casi, come documentato da Dittmayer, Bullock e altri, si trattava di errori: artefatti, strutture fisiologiche scambiate per particelle virali.
Nel mio gruppo abbiamo osservato, in condizioni rigorose, i polmoni di pazienti deceduti.
Il virus c’era poco. Il danno molto. Ma il danno, forse, non era solo virale. Era sistemico. Anche nella scienza. Oggi, la sfida è ancora più sottile e inquietante: le immagini possono essere completamente artificiali. Create da intelligenze artificiali, fotorealistiche, perfette, ma prive di ogni fondamento sperimentale. Simulazioni che diventano credibili solo perché appaiono plausibili.
E in questo scenario, il rischio è che la verità visiva si disintegri. Certo, per fortuna esistono software di controllo e piattaforme per la verifica (come Proofig o ImageTwin), ma nessun algoritmo può sostituire lo sguardo esperto di chi conosce il contesto biologico e tecnico della struttura osservata. Serve allora una cultura della visione scientifica, che unisca: l'osservazione consapevole, l’esperienza e la responsabilità interpretativa. Serve una nuova figura: lo scienziato visivo. Una persona capace di leggere le immagini come dati e come domande scientifiche, che sappia distinguere un artefatto da un’anomalia. Che abbia tempo, spazio, formazione e carriera. Oggi invece questa figura è marginalizzata, relegata nelle retrovie dei progetti. Eppure, è esattamente ciò di cui la scienza ha bisogno, insieme a tutte le nuove tecnologie.
Perché senza occhi che vedono, anche la macchina più potente finisce col guardare nel vuoto.

di Katia Cortese