Le elezioni americane. Il declino del cosmopolitismo, l’ascesa del neo-nazionalismo
La vittoria di D. Trump nelle ultime elezioni presidenziali americane rappresenta l’ultimo di una serie di eventi, non ultimo la “Brexit”, che paiono accomunati, pur con le dovute differenze particolari legate alle specificità di ciascun paese, da una medesima chiave di lettura. Il compito degli analisti, degli osservatori e di tutte le persone responsabili è quello di capire il perché di tali accadimenti e individuare i possibili scenari futuri.
L’emergere di una nuova frattura
In occidente è emersa una acuta frattura tra le diverse periferie sociali e territoriali e i grandi centri che guidano, e beneficiano dei, processi di globalizzazione. Tale frattura si traduce in una crescente distanza tra le élite (politiche, economiche e sociali) e gran parte della popolazione. E’ come se si fosse spezzato il legame, di solidarietà e di comunanza, tra questi due segmenti, i cui destini appaiono sempre più divaricati. Il primo - costituito appunto dalle composite élite ospitate dai centri e il più delle volte connesse a reti transnazionali - appare come la parte che ha tratto vantaggi e privilegi dalla globalizzazione e dalla rivoluzione tecnologica; l’altro, costituito da una larga parte del popolo, rappresenta coloro che non hanno guadagnato, o addirittura perso, da queste trasformazioni.
Per queste ragioni, il segmento perdente della popolazione ha la sensazione di essere stato tradito e abbandonato dalle sue classi dirigenti. Una sensazione che alimenta un sentimento di frustrazione e risentimento che si esprime appunto in una montante rivolta contro i rispettivi establishment. Occorre quindi capire le possibili cause di tale fenomeno e, soprattutto in riferimento alle elezioni presidenziali americane, il perché Trump ha saputo sfruttarlo politicamente.
Le cause
A mio avviso le ragioni principali, anche se non esclusive, di questa frattura si collegano a due fattori, uno di natura economica, riferito alle dinamiche sociali innescate dalla globalizzazione economica e dalla rivoluzione tecnologica, l’altro associato invece alle dinamiche geopolitiche degli ultimi decenni. Il combinato della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica ha, da un lato, aumentato il livello di incertezza economica in larghe fasce della popolazione. Molti gruppi sociali, in virtù dei processi di delocalizzazione industriale e della concorrenza da parte dei paesi emergenti, hanno perso il posto di lavoro e, se rioccupati, ne hanno trovato un altro meno pregiato e peggio remunerato. Ciò, a sua volta, ha determinato un calo delle aspettative e proiettato un alone di angoscia e incertezza sugli orizzonti futuri.
Il cambiamento degli equilibri geopolitici e il crescente disordine mondiale, dall’altro lato, hanno alimentato un forte senso di insicurezza, che ha un duplice connotato: un’insicurezza relativa alla paura di veder minacciata la propria integrità fisica, si pensi alla paura di attentati e di guerre imminenti; una insicurezza, ancora più insidiosa dal punto di vista politico, relativa alla perdita della propria identità. Le opinioni pubbliche occidentali, specialmente negli USA, sembrano infatti avvertire il declino relativo dei loro sistemi socio-politici, concomitante all’ascesa di nuove potenze emergenti non appartenenti al nostro modello di civiltà. La percezione di perdere progressivamente l’antica supremazia è aggravata inoltre dai grandi fenomeni migratori, che sembrano minacciare dall’interno il nostro modo di vita e le nostre tradizioni.
Appare comprensibile che dalle parti periferiche del mondo occidentale, le più vulnerabili ed esposte a questi effetti collaterali negativi, si sollevi una forte domanda di protezione e sicurezza, sia in termini economici, sia in termini identitari. Con la caduta delle grandi narrazioni ideologiche del 900, l’appiglio più immediato e rassicurante in frangenti così tempestosi e imprevedibili appare il ritorno alla originaria comunità di appartenenza (ai suoi miti e ai suoi valori fondativi) e la chiusura protezionistica delle frontiere.
La risposta vincente di Trump
Trump ha saputo intercettare questo malessere grazie ad una narrativa efficace che ha dato voce alle sofferenze e alle paure di questa parte della popolazione. Una narrativa che, oltre a individuare dei facili capri espiatori (classi politiche oligarchiche e chiuse in se stesse, grandi banchieri e finanzieri, gruppi etnici non pienamente integrati ecc.) verso cui indirizzare le responsabilità dei disagi, ha prospettato un sogno di riscatto, in virtù di un ritorno della grandezza originaria e del primato dei valori tradizionali della componente bianca e protestante del paese.
Naturalmente la vittoria di Trump ha effetti più rilevanti rispetto all’eventuale ascesa di altri leader populisti in Europa. Gli Stati Uniti, infatti, svolgono ancora un ruolo guida nel campo occidentale e le loro scelte strategiche finiscono inevitabilmente per condizionare i loro alleati. Le loro dinamiche, inoltre, anticipano spesso quelle degli altri paesi facendoci intravedere anche il nostro possibile destino. E’ di conseguenza importante provare a ipotizzare - fatto salvo che egli, come ogni presidente nel passato, dovrà affrontare, per provare ad attuare i suoi disegni, un processo di negoziazione continua con il Congresso e i suoi singoli deputati - i possibili scenari futuri innescati da quello che si profila comunque come uno spartiacque della storia contemporanea.
Gli scenari futuri
Uno scenario concerne la politica interna. L’indirizzo economico, in primo luogo, dovrebbe essere improntato ad una politica commerciale protezionistica, ad una ripresa degli investimenti in opere pubbliche e ad una riduzione del carico fiscale. Le politiche sociali potrebbero essere segnate, in secondo luogo, da a una regolazione più restrittiva, vedremo se più simbolica che effettiva, dei flussi migratori e da una abrogazione, almeno parziale, della riforma sanitaria promossa da Obama.
Sul piano più strettamente politico e ideologico, il successo di Trump potrebbe determinare un cambiamento degli orientamenti e delle strategie dei due partiti tradizionali, Democratico e Repubblicano, costringendoli ad un aggiornamento dei loro nuclei valoriali e dei loro indirizzi programmatici.
Ma le conseguenze, nonché le incognite, maggiori riguardano la politica internazionale. In generale potremo assistere, se il neo presidente darà seguito alle sue promesse, ad un indirizzo neo-isolazionista, all’interno del quale l’amministrazione potrebbe ridurre i suoi impegni d’oltre mare limitandosi a perseguire, in un’ottica più bilaterale che multilaterale, i suoi più stretti ed essenziali interessi nazionali, abbandonando le velleità di modellare un ordine mondiale all’insegna dell’american way of life. I riflessi di tale approccio riguarderebbero diversi ambiti. I rapporti con la Russia potrebbero essere caratterizzati da un maggior pragmatismo, che, a sua volta, potrebbe favorire una spartizione delle sfere di influenza in Medio Oriente e un atteggiamento più morbido sulla “questione ucraina”.
Con l’altro importante rivale geopolitico, la Cina, i rapporti potrebbero invece deteriorarsi in seguito al tentativo di ridefinire le relazioni economiche e commerciali (con il rischio di innescare una spirale di ritorsioni molto insidiosa), mentre appare come un’incognita la risposta alle crescenti mire espansive del gigante asiatico verso il Pacifico. Rispetto ai tradizionali alleati in Europa ed Estremo Oriente (specie Giappone e Corea del Sud) continuerà con maggior forza la spinta per ottenere una diversa e più equa distribuzione degli oneri e dei costi della sicurezza.
La parziale ritirata dall’ impegno multilaterale renderebbe, in particolare, l’Europa più sola e autonoma, mettendola di fronte a maggiori e più gravi responsabilità nella gestione della propria politica estera e di sicurezza. Da ciò nasce il quesito più inquietante per noi: sarà il vecchio continente, e al suo interno l’Italia, all’altezza di questa nuova sfida?