Un mare di plastica - intervista a Mariasole Bianco
Mariasole Bianco, 32 anni laurea in gestione e conservazione dell’ambiente marino all’Università di Genova e un master in gestione delle aree protette. Esperta di oceani per la trasmissione “Kilimangiaro”. La sua più grande passione è il mare, o meglio, la difesa del mare. Nel 2013 ha fondato Worldrise, un'associazione no profit che crea e promuove progetti per la tutela dell'ambiente marino, coinvolgendo giovani studenti e neolaureati. Docente di “Divulgazione Naturalistica” presso l’Università di Genova. Membro della World Commission on protected Areas dell’IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura)
Un mare di plastica, la soluzione siamo noi.
Intervista di Claudia Ferretti
Parliamo di consapevolezza, lei fa molta divulgazione scientifica: quanta conoscenza ha trovato parlando con le persone sul tema dell’inquinamento in particolare dei mari?
“Fortunatamente la conoscenza riguardo l’inquinamento nell’ambiente marino sta aumentando in maniera significativa. L’ambiente marino è stato ignorato per molti anni dalla collettività ma anche dalle organizzazioni internazionali che si occupano di conservazione della natura, ci si è concentrati su specie specifiche, su figure iconiche come le balene, ma poco sull’ambiente marino in generale a livello di ecosistemi e ancora meno su come l’ambiente marino influenzi la nostra esistenza: tutto dipende dal mare dall’aria che respiriamo, all’acqua che beviamo e il clima inoltre l’ambiente marino è una fonte primaria di proteine per moltissime persone.”
Quando è iniziata questa presa di coscienza?
“Negli ultimi cinque anni c’è stato un notevole aumento della sensibilità sui temi dell’ambiente marino. Anche per un paradosso: se parliamo di inquinamento il primo posto lo ha l’inquinamento dato dalla plastica, ma è proprio grazie questo tipo di inquinamento (visibile e esponenzialmente aumentato negli anni) che è cresciuta anche la consapevolezza dell’inquinamento del mare, perché per sua natura si può vedere ad occhio nudo, è un inquinamento facilmente riconoscibile e che provoca subito indignazione. Parlare di inquinamento o delle varie problematiche che affliggono il mare è molto difficile, bisogna cercare di arrivare alle persone con le parole perché molti di questi problemi sono invisibili per quanto micidiali.”
Quanta coerenza ha trovato nei comportamenti delle persone che comprendono il fenomeno, quanti mettono in pratica azioni che possono limitarlo?
“Le persone informate generalmente tendono ad agire in maniera consapevole, l’informazione su questo tema è stata fatta, se ne è parlato veramente tanto ma c’è una lunga strada da percorrere perché diventi un patrimonio della coscienza individuale dei cittadini. Quando le persone vengono poste di fronte al problema dell’inquinamento del mare, reagiscono chiedendosi come fare per migliorare il proprio atteggiamento, talvolta però le risposte sono così lontane dall’attuale stile di vita che la soluzione sembra impossibile…invece basterebbe fare solo un minimo sforzo: l’inquinamento deriva in gran parte dall’uso inconsapevole che noi facciamo della plastica, ma il problema non è la plastica in sé, ma che sia un materiale destinato a durare centinaia di migliaia di anni, che noi usiamo come usa e getta, le sue attuali funzioni usa e getta sono completamente sostituibili da altri materiali, occorre solo cambiare alcune abitudini.”
Dai sacchetti dell’ortofrutta all’ossigeno che respiriamo c’è un collegamento
Sono stati introdotti i sacchetti biodegradabili nei reparti ortofrutta ed è scoppiato l’allarme per il costo aggiuntivo della frutta: si trattava di un’iniziativa volta a ridurre la quantità di sacchetti di plastica dispersi nell’ambiente (che prima o poi vanno a finire in mare), cosa è successo?
“In generale siamo conservatori, affrontiamo sempre con diffidenza i cambiamenti, quando si implementa la raccolta differenziata a porta a porta nei comuni per la prima volta sembra un dramma, poi ci si abitua, è solo una questione di abitudine; la legge nel caso dei sacchetti biodegradabili e compostabili non prevedeva di potersi portare da casa un sacchetto riutilizzabile, adesso la stanno cambiando in tal senso e credo che questo risolva gran parte del problema, che poi era di pagare un extra di pochi cents per una cosa che prima avevamo gratis. Il problema è però anche che nella gratuità ed in quel bassissimo costo del sacchetto di plastica, non era conteggiato l’elevatissimo costo ambientale che comporta avere quel sacchetto per altri mille anni sul pianeta. Questo conteggio non viene mai fatto ma è fondamentale…”
Mi viene da citare un biologo: Piergiacomo Pagano, “siamo ormai tutti consapevoli della necessità di rivedere il nostro modo di concepire la natura, ma ognuno secondo una tesi differente” (più antropocentrica, teocentrica, biocentrica, ecocentrica, anticapitalista…) cosa ne pensa di trovare nuova filosofia ambientale, qualcosa che ci doni delle buone ragioni, condivisibili da tutti e svincolate dall’appartenenza religiosa o dal nostro stile di vita, per preservare la natura?
“Sarebbe come trovare il Sacro Graal… Io lo spero con tutto il cuore: ci sono talmente tanti servizi e cose che la natura ci offre e che non sono quantificabili in termini economici ma dalle quali dipende la nostra esistenza. Come facciamo a quantificare il fatto che un oceano in buona salute ci fornisce il 50 % dell’ossigeno che respiriamo? Che se non ci fosse non respireremmo.”
Per quanto riguarda l’interesse economico, può essere anch’esso bastante a unirci nel tutelare l’ambiente?
“Viviamo in una società in cui il fattore economico è quello che più di tutti guida le scelte politiche e societarie: si sta andando sempre più verso il campo della valutazione economica della natura, si chiama valore dei servizi ecosistemici, servizi che se non ci fosse la natura, dovremmo pagare: ad esempio le praterie di Posidonia delle isole Egadi fanno risparmiare ai comuni costieri milioni di euro, se non ci fossero, infatti, i comuni dovrebbero spendere parecchio per il rifacimento periodico delle spiagge per contrastare l’erosione costiera. Si tratta di servizi che costerebbero cifre altissime, mentre la natura li offre gratis.”
I giovani possono salvare la terra ma devono riavvicinarsi alla natura
Le nuove generazioni saranno una chiave di svolta?
“I danni ambientali sono adesso sotto gli occhi di tutti, c’è stata una generazione che ha deciso di ignorare completamente le conseguenze dell’impatto antropico sugli ecosistemi naturali, oggi è molto difficile ignorare le conseguenze di questi comportamenti quello che manca è una direzione precisa e la volontà di agire per cambiare rotta.”
Ci troviamo di fronte al paradosso per cui chi è cresciuto a contatto con la natura, dandola per scontata, non ha maturato una coscienza ecologica, mentre chi cresce lontano da essa in luoghi che ci separano completamente dalla dimensione naturale della vita, deve maturare per forza una coscienza ambientale per poter sopravvivere?
“In un certo senso siamo sempre più lontani dalla natura, adesso occorre riavvicinare i bambini alla natura, donando alle nuove generazioni l’opportunità di acquisire la consapevolezza del valore intrinseco della natura. Bisogna fare un gran lavoro per facilitare la connessione dei bambini con le risorse naturale in modo che la coscienza ambientale sia legata alla conoscenza e all’esperienza diretta della natura e si possa finalmente trovare l’equilibrio giusto che unisca nel concetto di sviluppo la componente ambientale, sociale ed economica.”
Ai giovani che cercano un corso di studi che consenta di approfondire questi temi e fare della difesa del mare la propria professione, come ha fatto lei, cosa consiglia?
“Io adesso insegno “Divulgazione naturalistica” agli studenti di Scienze Ambientali, Scienze Biologiche e Scienze Naturali dell’Università di Genova, se dovessi scegliere adesso quale corso frequentare, sarebbe uno di questi, oppure uno dei nuovi corsi a tema introdotti in questi ultimi anni: “Conservazione e gestione della natura”, “ Biologia Marina”, “Scienze del Mare” o “Monitoraggio biologico”, si tratta di corsi pensati per formare nuove figure di esperti che affrontino il problema dell’inquinamento del mare e della biodiversità: l’Università di Genova ha puntato molto su questi temi ed offre una formazione di eccellenza, sono molto orgogliosa di essermi laureata a Genova…”
La plastica nella nostra catena alimentare
È stato recentemente pubblicato uno studio sulla capacità del Krill (un minuscolo crostaceo, cibo d’elezione delle balene) di trasformare le microplastiche (<5mm) in nanoplastiche tramite il suo apparato digerente, questo comporta la possibilità per creature ancora più piccole di ingerire materie plastiche, riducendo la plastica dispersa in mare in particelle impossibili da rintracciare. È una buona notizia? Quali potrebbero essere le conseguenze a lungo termine di questa dieta non proprio sana?
“Assolutamente no, è una pessima notizia! Le nanoplastiche sono praticamente ormai ovunque e difficili da tracciare, il fatto che il krill si nutra di microplastiche è l’indicatore della pericolosità delle plastiche e del loro uso che si ritorce contro di noi: la plastica scambiata per cibo dagli animali si accumula e diventa parte della catena alimentare, fino ad arrivare ai grandi predatori, tra cui l’uomo. Le particelle di plastica in mare si comportano come delle spugne assorbendo agenti inquinanti dispersi nel mare come il DDT, e altri pesticidi e erbicidi che una volta ingeriti viene scambiata per cibo vengono accumulati nel tessuto grasso dell’animale accumulandosi attraverso la catena alimentare. Come si dice “pesce grande mangia pesce piccolo” e risalendo la catena alimentare infine ci siamo noi, queste sostanze chimiche provocano danni al sistema endocrino mimando l’attività ormonale e incidono in maniera significativa sulla fertilità. La soluzione principale a questo problema rimane puntare sull’educazione e fare in modo che tutta questa plastica non finisca in mare.”
Però è difficile, come facciamo a controllare pezzetti di plastica di dimensioni così piccole?
“Ci sono microplastiche primarie e secondarie, quelle primarie nascono già microplastiche e sono quelle negli scrub, nei dentifrici, oppure nelle fibre dei tessuti. Quelle secondarie sono derivate da pezzi di plastica più grande che si frammentano. Perché la plastica non si biodegrada ma si degrada, cioè si frammenta in piccoli pezzettini, ad esempio gli pneumatici rilasciano pezzettini di plastica, la bottiglietta o il tappo sottoposti all’azione del sole si sfibrano e riducono di dimensione fino a divenire microplastiche. Quindi quelle secondarie, che sono molto maggiori rispetto alle primarie perché vengono da qualsiasi tipo di plastica, sono anche più semplici da contrastare, basta non disperdere plastica nell’ambiente e, in generale, adoperarne meno.”
Le “isole di plastica”
La più celebre si chiama “Great Pacific Garbage Patch” oppure “Pacific Trash Vortex”, ma ve ne sono almeno altre quattro meno famose e stanno aumentando: parliamo delle Isole di Plastica, accumuli di spazzatura che si formano negli oceani e nei mari per azione delle correnti e del vento. L'ex Vice Presidente degli Stati Uniti Al Gore ha sottoposto alle Nazioni Unite la proposta di fare uno stato della “Great Pacific Garbage Patch”, se venisse accettata come Stato indipendente, infatti godrebbe della protezione ambientale di cui godono gli altri Paesi riconosciuti, e potrebbe essere smantellata.
“Pensa che ogni anno vengono prodotti più di 300 Milioni di tonnellate di plastica e di questa enorme quantità solo una percentuale bassissima viene riciclata e in media ogni anno finiscono in mare 8M di tonnellate di plastica, ovvero un camion zeppo di spazzatura al minuto. Se non si fa subito qualcosa, questa quantità salirà a due camion pieni ogni minuto entro il 2030. Un altro grande problema è la natura stessa della plastica che non si biodegrada, una bottiglietta di plastica potrebbe metterci dal 400 ai 1000 anni a decomporsi. Una volta che finisce nell’oceano attraverso i fiumi o trasportata dal vento la plastica o si spiaggia o prende il largo trasportata dalle correnti andando a formare quelle che vengono chiamate le isole di plastica ma che più correttamente adesso vengono definite zuppe di plastica perché la plastica non si decompone ma si disgrega in tanti piccoli pezzettini che ormai hanno invaso ogni metro quadrato di mare e colonizzato anche le parti più remote del pianeta. Intorno a queste chiazze nuotano e vivono milioni di pesci e animali marini. Sono state colonizzate da organismi, tra cui diatomee e batteri, e questo fa prendere all’isola l’odore di mare, tale odore inganna gli animali facendola sembrare ricca di cibo: diviene dunque nutrimento di questi animali ed entra nella catena alimentare, giungendo fino a noi. Uno studio del CNR ha individuato una zuppa di plastica anche nel Mediterraneo tra Toscana e Corsica con concentrazioni pari a 10 chili per chilometro quadrato, valori superiori perfino alla famigerata “isola di plastica” nel vortice del Pacifico del nord.”
C’è chi ha pensato ad una soluzione che ne accelerasse i tempi di rimozione dal mare, con il progetto “The Ocean Cleanup” Boyan Slat 24 anni, olandese, ha inventato un metodo per usare la circolazione delle correnti oceaniche a suo vantaggio con una grande barriera galleggiante per catturare passivamente i detriti presenti nell’oceano: essi sarebbero trascinati interamente dalle correnti naturali dell’oceano e dal vento, permettendo alla vita marina di passare al di sotto ma trattenendo la plastica galleggiante, la plastica verrebbe poi raccolta e trasformata, spedita sulla terra e venduta come materiale riciclato.
“Sicuramente una buona idea: il progetto è in fase di sperimentazione, è stato fatto un test nel Mare del Nord (molto più agitato del Pacifico), in condizioni ostili per verificare la funzionalità di tutti i meccanismi: in base ai test si verrà perfezionato il prototipo che verrà sperimentato quest’anno nel Pacifico. Pulire ciò che abbiamo sporcato però non è l’unica soluzione, perché il problema non è solamente la plastica che c’è in mare, bensì quella che ci continua a finire, non dobbiamo cercare metodi per ripulirci la coscienza, dobbiamo agire con l’educazione perché tutta quella plastica nel mare non finisca più.”
Cosa fare?
Per adoperare meno plastica, sarebbe sostenibile una produzione di plastica interamente vegetale, come quella di quel supermercato in Olanda?
“La soluzione come sempre è quella di cambiare abitudini: ci sono mille altri materiali con cui sostituire la plastica usa e getta, ad esempio una bottiglietta non deve essere di plastica vegetale se posso avere una borraccia che dura una vita. È un discorso ampio, noi cerchiamo scappatoie per non cambiare stile di vita, ma se non ci rendiamo conto che la soluzione non può essere altra che questa, le conseguenze saranno drammatiche: vedi i cambiamenti climatici, se non riusciamo a diminuire le emissioni che produciamo ogni anno aumenterà il livello del mare, e con esso cicloni, alluvioni, bombe d’acqua…l’idea è di agire per tempo ma per farlo bisogna cambiare drasticamente stile di vita, e spesso è difficile farlo prima che avvenga la tragedia.”
È possibile che la tecnologia ci possa salvare dal disastro ecologico?
“La tecnologia già fa passi da gigante e molte soluzioni sono già a nostra disposizione, serve però la volontà di adottarle, e che le leggi vadano nel senso giusto. Ci vuole un’informazione precisa sui motivi delle politiche ambientali in modo che la collettività sia consapevole e dunque più motivata nel modificare alcune abitudini per andare verso un sistema sostenibile.”
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