Il faticoso cammino dei diritti civili per gli afroamericani
Long time ago…
65 anni fa, il 1º dicembre 1955, a Montgomery, in Alabama, nel cuore del più duro apartheid razziale statunitense, un piccolo grande gesto di resistenza su un autobus da parte di una minuta e umbratile afroamericana quarantenne ha cristallizzato decenni di oscura e faticosa mobilitazione antisegregazionista nera, nei quartieri, nella chiese, sui luoghi di lavoro. E ha messo in moto un movimento emancipazionista senza precedenti per forza e determinazione.
Il rifiuto di Rosa Parks di osservare le inique norme vigenti e lasciare il posto a sedere a un bianco, il suo successivo arresto e la reazione di solidarietà della comunità nera mediante un boicottaggio degli autobus che durò oltre un anno sono passati alla storia. Così come è entrato direttamente nel mito Martin Luther King, il giovane pastore battista, colto e raffinato, scelto come leader di una lotta che aveva al centro gente comune: lavoratori come Parks, dipendente in un supermercato, iscritta alla National Association for the Advancement of Colored People, la più importante associazione afroamericana dell’epoca, e allieva dei corsi dell’Highlander Center, una celebre scuola di quadri e militanti sindacali e dei diritti civili in Tennessee.
Tra diritti civili e reazione
Rosa Parks è mancata quindici anni fa, nel 2005. Ha dunque fatto in tempo a vedere le lancette dell’orologio della liberazione nera muoversi decisamente in avanti, pur fra mille resistenze bianche, per i dieci-quindici anni successivi al suo gesto. Così è stato nella stagione del Civil Rights Act (1964), che finalmente dichiarava illegale la segregazione; del Voting Rights Act, che l’anno dopo restituiva ai neri il diritto di voto, garantito da un emendamento costituzionale del 1870, ma sistematicamente negato loro da leggi capziose negli stati del Sud; e della “Guerra alla povertà”, il progetto di riforme strutturali a favore degli indigenti, e quindi prima di tutto dei neri, lanciato, sempre a metà anni Sessanta, da Lyndon B. Johnson.
Ma, col passare degli anni, Rosa Parks ha anche fatto in tempo a vedere i segni di una pericolosa inversione di tendenza. Se è vero infatti che, col sostegno delle leggi Democratiche di azione positiva per le minoranze degli anni Sessanta e Settanta, era maturato un ceto medio e medio-alto afroamericano, è anche vero che la componente più povera della comunità nera diventava la vittima designata del deserto sociale e civile creato nell’ultimo quarantennio dalla deindustrializzazione e dal degrado delle città, frutto dell’avanzare del neoliberismo, da Reagan in poi.
Da Obama a Trump
Neppure l’avvento alla Casa Bianca di un presidente nero quale il Democratico Barack Obama, dodici anni fa, è riuscito a spezzare il circolo vizioso del razzismo strutturale. Una situazione che è poi precipitata, dal 2017, col suo successore, il Repubblicano Donald Trump. Pur respingendo sdegnato le accuse che suo padre fosse stato, in gioventù, simpatizzante del Ku Klux Klan, con i suoi apprezzamenti per i suprematisti bianchi, eredi del Klan, Trump ha legittimato di fatto il diffuso clima di odio razziale alimentato da queste violente frange estremiste.
Eccoci così ai giorni nostri. A quella Minneapolis nella quale nella primavera 2020 gli afroamericani, quasi un quinto della popolazione, erano, come tutti gli strati meno abbienti, in testa alle statistiche del contagio Covid19 e avevano nove probabilità più dei bianchi di venir arrestati per reati minori. Col rischio di subire poi, come è accaduto tragicamente a George Floyd, la violenza poliziesca bianca.
Un nuovo inizio?
Difficile dire se la presenza al fianco del nuovo presidente Joe Biden di un’afroamericana, Kamala Harris, prima donna vicepresidente della storia, basterà a cambiare le cose.
Ma è indubbio che i neri e quanti, dentro e fuori degli Stati Uniti, hanno a cuore le sorti della democrazia, lo sperano.