La lingua batte (anche) a Sanremo

La lingua batte (anche) a Sanremo


Che italiano è quello della canzone? Che rapporti (di dare e di avere) vi sono tra la lingua usata nei testi delle canzoni e quella di tutti i giorni? È possibile tracciare una storia linguistica della canzone italiana? Sono interrogativi che si può porre tanto l’appassionato di musica leggera, che abbia seguito, come ogni anno, di questa stagione, il Festival di Sanremo (nato nel 1951 e oggi diventato più un evento televisivo che una gara di canzoni), quanto il linguista, che ormai da qualche decennio ha sdoganato il fenomeno, se non altro per il suo rilievo sociale, culturale, economico nel Paese del bel canto.


Prima di tutto occorre sgomberare il terreno da un equivoco: il testo della canzone non ha, salvo rarissimi casi, una propria autonomia; esiste solo in quanto è destinato ad essere messo in musica, è al servizio della struttura musicale (la cosiddetta mascherina), e non viceversa. E ciò dovrebbe essere sufficiente a smentire chi voglia considerare la canzone come poesia (la quale esaurisce in sé tutti i sensi, mentre il testo canzonettistico ha bisogno di quell’”aggiunta di senso” che sono le note), i cantautori come i “nuovi poeti” da antologizzare (ma è credibile che essi contribuiscano ad instillare un certo gusto della poesia nelle giovani generazioni). Se è vero che le parole delle canzoni sono “parole per musica”, è dunque conseguente che la lingua italiana (adatta alla melodia, meno adatta dell’inglese e del francese al ritmo) venga piegata alle esigenze musicali. Altrimenti, come si spiegherebbero, in fine di verso, tanti monosillabi (te, me, io), tante parole tronche, magari in verbi al futuro (vivrò, lavorerò, piangerò, in Io vivrò di Battisti e Mogol, ma anche in Francesco De Gregori, La donna cannone), tante zeppe (e sai, e poi), tante inversioni sintattiche (“e all’improvviso venivo / dal vento rapito”, Nel blu, dipinto di blu di Modugno e Migliacci)? Questo vale certamente per la canzone cosiddetta ancien régime del primo secolo unitario, con le sue radici nel melodramma e nella grande tradizione napoletana, fino alla svolta interpretativa rappresentata, nel 1958, dal teatrale “volo” di Domenico Modugno a Sanremo.


Le cose cambiano a partire dagli anni Sessanta (e poi, più marcatamente, Settanta), con la nascita del fenomeno (tipicamente italiano, ma con modelli Oltralpe e Oltreoceano) dei cantautori, che per la prima volta riuniscono in sé le figure, prima distinte, dell’autore del testo (il paroliere, l’artigiano delle parole), del musicista, dell’interprete. Anche il linguaggio, prima desueto e retorico (“Signorinella pallida / dolce dirimpettaia del quinto piano”, Signorinella, di Bovio e Valente, 1931) si abbassa decisamente di tono, diventa dimesso, più vicino all’italiano quotidiano (“mi sono innamorato di te / perché / non avevo niente da fare”, Mi sono innamorato di te, di Tenco), se non altro confrontandosi con l’evoluzione del linguaggio poetico e anche con una più ampia diffusione dell’italiano, cui proprio la canzone avrà, almeno in parte, contribuito.


Dagli anni Ottanta in avanti la canzone italiana conosce una grande varietà di generi (accanto alla canzone d’autore, il rock, il pop, il rap), tra i quali ha particolare rilievo il recupero del dialetto (in funzione lirica, come nel grande esempio di Fabrizio De André; in funzione polemica e ideologica, come nelle posse). Tale compresenza di generi, di forme e di modelli (e di tipo di pubblico) è la chiave della situazione attuale. Basta leggere (ma non senza, per le ragioni che si sono dette, ascoltarli in musica) i testi di Sanremo 2013 per averne conferma. Qui, accanto a moduli tipici della vecchia canzonetta (rime baciate, magari inconsuete e ironiche: morto: accorto: risorto; aggiornamento: momento, Simone Cristicchi; il classico più: blu, Almamegretta; assonanze: mentre il mondo cade a pezzi / io compongo nuovi spazi, il vincitore Marco Mengoni; allitterazioni; citazioni, più o meno nascoste, di altre canzoni: e come prima, Malika Ayane; suona un’armonica, Chiara Galiazzo), troviamo una ricerca linguistica più raffinata: avrei bruciato l’accidia immemore che porta il tempo, Raphael Gualazzi. Nel tentativo di una lingua “poetica”, a volte si esagera con le metafore e le figure retoriche, come in se avessi solo un po’ più di tempo per viaggiare / frantumerei il mio cuore in polvere di sale / per coprire ogni centimetro di mare, Modà e nell’incredibile chiedo perdono alla pastorizia / perché con la mia condotta / ho umiliato la reputazione / della pecora nera, Marta sui tubi. Ma è La canzone mononota di Elio e le Storie Tese a presentare il tasso di novità più sorprendente: un vero spettacolo nello spettacolo, un ironico bignami di musicologia (puoi cambiare il ritmo / puoi cambiare la velocità / puoi cambiare l’atmosfera / puo cambiare gli accordi / la puoi fare maggiore, minore, eccedente, diminuita) e di tecnica interpretativa (puoi cambiare il cantante / puoi cambiare l’argomento / puoi cantarla da solo / puoi cantarla tutti insieme con il coro / puoi farla fare all’orchestra / mentre ti prendi una pausetta / puoi cambiare la lingua), una “meta canzone” surreale e dissacrante, come è nello stile del gruppo. La lingua batte e si rinnova (anche) a Sanremo.

Lorenzo Coveri
Dipartimento di Italianistica, romanistica, antichistica, arti e spettacolo
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