Pascoli e la poesia "en plein air"
Pascoli e la poesia "en plein air"
Non sempre, - per fortuna - gli studi seguono le date. È tipico dei media parlare di un argomento culturale e scientifico obbedendo a "pretesti aritmetici", come diceva Contini. Ovvero agli anniversari, ai centenari, ecc. Quasi che le esigenze culturali fossero dettate dal calendario. Per fortuna spesso si discute di Dante o Manzoni o di Darwin anche fuori di queste occasioni artificiali. Però l'abitudine dilaga, per vari motivi. Di Pascoli quasi non si è parlato nell'autunno scorso nell'occasione del centenario della guerra di Libia (1911-2011). Eppure il suo discorso di Barga a proposito dell'entrata in guerra contro i turchi (4 ottobre 2011), "La grande Proletaria s'è mossa", fu importante. Si torna a parlare di Pascoli (S.Mauro di Romagna 1855- Bologna 1912) nel centenario della morte. Adeguiamoci. In un ritratto della sempre sofferta identità italiana, Pascoli con la sua statura di uno dei cinque grandi lirici forniti dalla nostra letteratura all'Europa (Dante, Petrarca, Leopardi, Montale), non può mancare. Certo, non lo si deve poi schiacciare sul ruolo politico nazionale, assunto tardi, di candidato "leader del popolo italiano" (Gramsci). Semmai è da chiedersi, con Gramsci, quale parabola abbia condotto il poeta che scopre le umili cose ("Myricae", 1891, che ha fornito a tutti gli italiani una particolare idea di "sentimento poetico", come vide Sanguineti), il poeta del "nido" e dei lari domestici ("Canti di Castelvecchio", 1903, poema nazionale che inoculò negli italiani un'idea della vita), ex-socialista, tolstoiano, pacifista, buonista che più buonista non si può, attraverso i miti sabaudo-garibaldini ("Odi e Inni", "Poemi del Risorgimento"), ad approdare all'esaltazione delle velleità belliciste e coloniali italiche. Né ci deve troppo attirare l'affascinante biografia psicologica, quasi che Pascoli non fosse nella sua poesia ma si risolvesse nel romanzo della sua vita. Un romanzo così freudiano, scritto da un formidabile sensitivo che intuì Freud senza conoscerlo, ricostruito apppassionatamente ma discutibilmente da Cesare Garboli. Non c'è dubbio che la costruzione di un "nido", dopo l'uccisione del padre (1867), ossia di una famiglia del tutto abnorme, grazie al progetto di una vita coniugale a tre - un ménage à trois di un fratello appena laureato con due sorelle uscite di convento - vada annoverata come uno dei miti più straordinari che abbia inventato la poesia moderna: "un sogno, una fantasia così italiana, così romagnola e cattolica, che difficilmente potrebbe trovare riscontro in qualunque altro luogo della terra" (Garboli). Al di là del "romanzo italiano", restituito da critici diagnostici (pure il nostro Elio Gioanola), il poeta di "Myricae" e dei "Canti di Castelvecchio", cioè di componimenti, - fatta la tara al niagara di lacrime -, di ineguagliabile maestria tecnica e di sensibilità prefreudiana, è altro. È altro, proprio nel momento in cui compie la traslazione delle sue inquietudini e stranezze, vittimismo (suo, ma così italico) e fanciullaggini private in quadri che le superano, le trascendono. E si dice in "quadri" anche in riferimento alla capacità di rendere visivo, pittorico, spaziale, paesaggistico, il mondo contadino e soprattutto gli elementi in prima battuta naturalistici: il campo, la siepe, la fila d'alberi, la nebbia, il prato, il rio, gli insetti: repertorio noto a tutti se non altro per inerzia scolastica. Con Pascoli, finalmente, la poesia si libera muovendosi en plein air. Non dissimile, il suo cammino, da quello dei pittori del secondo ottocento, dai macchiaioli agli impressionisti, che voltano le spalle alle chiuse accademie e scorazzano per parchi, boschi, lungofiumi, ma anche città (luogo invece "adulto" e perciò vietato al Pascoli e alla sua arte). Il poeta del "Gelsomino notturno", delle stagioni (l'inverno dell'"Uccellino del freddo"), dei campi arati e della esatta meteorologia campestre è una specie di Monet, che non sconfina nell'informale, ma resta saldo nella fedeltà "realistico-simbolica" al paesaggio che attornia la sua casa campagnola di Castelvecchio, comprata con le medaglie d'oro vinte ai concorsi di poesia latina di Amsterdam. L'Italia scopre un paesaggio in cui riconoscersi e in cui collocare e intrecciare la discussione sulla vita, la morte, i morti, il lavoro, il rapporto con il mondo contadino al suo tramonto e dunque già investito di una speciale nostalgia che durerà fino ai paesaggi del mulino bianco. È da lì che nasce la sua vocazione politica, meglio inquadrabile in una certa temperie nazionalista e pure colonialista, ma non imperialista, per via "georgica": si va in Libia perché ognuno possa coltivare il proprio campetto, minivirgilio zappante sul suo piccolo terreno, senza più la necessità dolorosa della Grande Diaspora italiana: l'emigrazione. Del resto il meraviglioso poema "Italy", protagonista la piccola Molly, italo-americana, è lì a dimostrare la particolare angolatura da cui Pascoli guardò il fenomeno dell'emigrazione di decine di milioni di italiani e lo fece interiorizzare ai rimasti in patria. Inutile pretendere da lui il grande romanzo, una "Recherche" proustiana in versi o in prosa. O sostituirsi a lui in quest'operazione. È dentro le sue poesie che si intersecano le forze esistenziali, estetiche e ideologiche di una tranche de vie italiana. Una poesia, come sostenne Pasolini a suo modo, da cui è dipesa anche tecnicamente tutta quella del nostro Novecento.