Piero Calamandrei: cento anni da La Cassazione civile
Piero Calamandrei e il Nocevento
La vita di Piero Calamandrei (Firenze, 1889 – ivi, 1956) parla a tutti noi, giuristi e non. Ci racconta con dovizia di particolari, lucidità e passione il Novecento. Un secolo «horrendo» di cui il professore fiorentino non fu solo uno dei protagonisti - affermazione indiscutibile ma che rischia di smarrire, nel vacuo elogio di circostanza, la statura grandiosa dell’uomo - ma vero e proprio autore, interprete e regista.
Di tutto fece esperienza: volontario nella Grande Guerra insignito di encomio solenne, apertamente antifascista prima, piegato ma non asservito al regime poi, impegnato in prima linea sul campo delle riforme della giustizia, coautore del Codice di procedura civile del 1940, padre – talvolta inascoltato - della Costituzione, agguerrito sostenitore della sua attuazione, uomo di cultura e delle istituzioni, sensibile letterato e, ovviamente, appassionato avvocato e fine accademico.
Davanti a una vicenda umana dai tratti così ampi, non stupisce che anche la sua produzione scientifica risulti imponente. Al grande pubblico è noto soprattutto l’arguto Elogio dei giudici scritto da un avvocato (1935), l’opera però che lo ha consacrato come maestro indiscusso del diritto processuale, di cui quest’anno ricorre il centenario, è La Cassazione civile1 (1920).
La poderosa opera
Monografia in due volumi, esito di un talento precoce (viene data alle stampe quando l’autore ha 31 anni ma è frutto di un lavoro di ricerca quasi decennale), è dedicata alla Corte suprema di cassazione, tribunale posto già allora al vertice della gerarchia giudiziaria. Nella prima parte – Storia e legislazioni – se ne analizzano l’evoluzione, le origini francesi e rivoluzionarie, le consonanze e dissonanze con il suo antecedente storico – il Conseil du roi del monarca assoluto – e se ne segue lo sviluppo al di qua delle Alpi, nella penisola italiana. Nel secondo tomo – Disegno generale dell’istituto – viene tratteggiato un modello ideale, in aperto contrasto con la realtà di quegli anni: una Corte di cassazione unica per tutto lo Stato istituita per mantenere l'unità del diritto nazionale attraverso l'uniformità dell'interpretazione giurisprudenziale.
Quando Calamandrei scrive le sue pagine in Italia convivono, infatti, ben cinque Corti supreme: quelle di Torino, Firenze, Roma, Napoli e Palermo. Ciò per il giovane avvocato è un’aberrazione, la Corte di cassazione è un giudice particolarissimo, con «uno scopo differente da quello cui servono tutti gli altri organi giurisdizionali: rimediare agli inconvenienti che derivano alla interpretazione giurisprudenziale dalla pluralità degli organi giudiziari dello stesso grado». Molti giudici significa, cioè, molte interpretazioni della medesima norma e quindi uno stato di incertezza; la Cassazione ha il compito di indicare l’indirizzo ermeneutico da seguire, suggerire la rotta da tenere nell’oceano in tempesta delle pronunce dei magistrati inferiori e assicurare pertanto la certezza del diritto (c.d. funzione nomofilattica). Viene da sé che cinque tribunali supremi, con cinque visioni differenti, siano un ostacolo di non poco conto alla realizzazione di tale obiettivo.
Lo sforzo scientifico di Calamandrei non sarà vano, il legislatore si conformerà in parte alla sua visione programmatica. Con il R. D. n. 601 del 24 marzo 1923 verrà superata la pluralità delle corti in favore di un consesso unico con sede in Roma – dove possiamo ammirarlo ancora oggi in Piazza Cavour – e con il R. D. n. 12 del 1941 sull'Ordinamento giudiziario e il Codice di rito del 1940, verrà messo nero su bianco che lo scopo del tribunale supremo è (anche) quello nomofilattico: «La corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale […].» (art. 65 R. D. n. 12/1941).
Una riflessione centenaria e ancora attuale
Oggi, a distanza di un secolo esatto, questo saggio, lungi dall’essere diventato obsoleto, continua a dialogare con la realtà. Se da un lato siamo, infatti, davanti a una pietra miliare - non solo della procedura civile, ma anche della storia del diritto – dalla cui lettura lo studioso non può prescindere, dall’altro le questioni qui affrontate permangono attuali.
La Corte di cassazione, nonostante i ripetuti interventi del legislatore, si trova in uno stato di costante affanno. L’esercizio effettivo della funzione nomofilattica è di fatto ostacolato da un carico di lavoro eccessivo (nel solo 2019 sono stati iscritti ben 38.725 ricorsi civili), che rende la Corte più simile a un giudice di appello che a un organo di legittimità.
La natura stessa del supremo consesso è, poi, oggetto di profondi mutamenti. All’interno di un orizzonte più vasto, in cui i concetti di separazione dei poteri e di gerarchia delle fonti del diritto sono ormai traballanti, la Cassazione in dialogo con le altre Corti apicali nazionali, sovranazionali e internazionali è divenuta un vero e proprio centro di produzione normativo, quel judge made law da cui Calamandrei metteva in guardia, ritenendolo un modello «assolutamente estraneo al nostro diritto» (tema evocato, su UniGe.life, da Federico Ponte nell’articolo La produzione normativa tra scienza e diritto, del 26 maggio 2020).
Da ultimo c’è chi, anche autorevolmente, ha riproposto un recupero, almeno parziale, di quel sistema policefalo che il maestro fiorentino si propose di eliminare.
Indipendentemente dalla posizione che si voglia assumere, quindi, la voce del giovane professore che scrisse, un secolo fa, queste pagine continua a giungerci chiara e forte, costringendo il giurista di oggi a confrontarsi con essa: o per aderirvi o per tentarne una confutazione. La Cassazione civile, insomma, si conferma un classico della letteratura giuridica, secondo una delle definizioni più note di Italo Calvino: «È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona.».