Brexit o non Brexit? L’accordo della vigilia di Natale tra UE e Regno Unito

Una data storica

Dal 1° gennaio 2021 è in vigore, pur provvisoriamente, il Christmas Eve Agreement, ossia l’Accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione tra Regno Unito e UE (in appresso “Accordo di scambio e cooperazione”), raggiunto alla vigilia di Natale (e firmato il 30 dicembre) dello scorso anno, al fine di regolare i futuri rapporti dell’UE con l’ex Paese membro. Appena in tempo per evitare la temuta Brexit senza accordo.
Se si sia trattato di un regalo di Natale, e per chi, è difficile dirlo con riferimento all’Accordo nel suo complesso, viste le molte e articolate disposizioni che contiene (si tratta di un testo di circa 1500 pagine).
Sui vari aspetti, qualche concessione c’è stata da entrambe le parti, come è normale che sia in questo genere di casi, laddove si vuole (almeno in linea di principio) restare “amici”. È certo, però, che molto è cambiato con l’inizio del nuovo anno.
Vale quindi la pena di svolgere qualche considerazione sulla situazione giuridica di insieme nella quale si inquadra il nuovo Accordo di scambio e cooperazione e sulla sua impostazione di fondo che, per vari motivi, si colloca su un piano assai differente rispetto a quello dell’Accordo di recesso dello scorso anno, ma al tempo stesso si lega inscindibilmente ad esso. 
 

Boris Johnson firma il Christmas Eve Agreement
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30/12/2020. Londra, Boris Johnson firma il Christmas Eve Agreement.
Ph by Andrew Parsons / No 10 Downing Street - https://www.flickr.com/photos/number10gov/50778945678/

Al riguardo, è noto che il Regno Unito ha smesso di essere uno Stato membro dell’Unione, cessando inter alia di essere rappresentato in seno alle istituzioni europee, già dal 1° febbraio 2020, con l’entrata in vigore dall’Accordo di recesso. Tuttavia, sino al 31 dicembre 2020, le Parti hanno deciso una sorta di “moratoria” delle conseguenze giuridiche legate all’attivazione dell’art. 50 TUE da parte di Londra, assicurando ai cittadini e alle imprese un business as usual almeno per ancora 11 mesi di periodo transitorio: il diritto UE avrebbe continuato ad applicarsi nel Regno Unito - e quest’ultimo avrebbe onorato i suoi impegni finanziari con l’UE - sino alla fine di tale periodo. Terminato il quale, però, non ci sarebbe stato più nulla.
Salvo, naturalmente, quanto previsto dall’Accordo di scambio e cooperazione raggiunto in limine e, chiaramente, dalle norme relative a sistemi multilaterali ai quali prendano parte sia l’UE sia il Regno Unito. Su tutte, quelle vigenti in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio.

goodbye
Foto di M. H. da Pixabay

Accordi e forze in campo

Così, se l’Accordo di recesso ha funzionato, e ancora funziona, da regime di passaggio tra il “dentro” e il “fuori” (dall’UE), e quindi risente fortemente dell’influenza dell’Unione su uno Stato che, nel corso del negoziato, è ancora un Paese membro, l’Accordo di scambio e cooperazione, ossia l’accordo sulle relazioni future, è tutta un’altra storia: il Regno Unito negozia da Stato terzo, nella consapevolezza che, se mancherà l’accordo, è lo stesso articolo 50 TUE, unitamente all’Accordo di recesso, a disporre la cessazione di qualunque vincolo normativo con l’ordinamento UE.
Il regime è quindi costruito ex novo: i “mattoni” della nuova relazione sono solo quelli sui quali si trova un accordo tra le parti.
Sicché, da parte sua, il Regno Unito ha selezionato gli aspetti sui quali aveva interesse a ri-stabilire un rapporto speciale con l’UE, lasciando invece “cadere” nel regime generale di cui l’art. 50 TUE tutto ciò su cui non aveva (o credeva di non avere) interesse a continuare a cooperare: in questo “cesto” sono andati a finire, ad esempio, temi come il programma Erasmus +, la giurisdizione della Corte di giustizia, la libera circolazione dei reciproci cittadini, la cooperazione di politica estera, sicurezza e difesa (ma, a ben pensarci, il Regno Unito non cooperava granché su quest’ultimo aspetto nemmeno quando era dentro all’Unione europea).
Intendiamoci: non per questo l’UE ha subito le scelte del Regno Unito. Anzi.
Come spesso avviene nel confronto tra il pachiderma (l’UE) e il topolino (il Regno Unito), è l’Unione a detenere una posizione negoziale di forza sui temi economici, non foss’altro che per le dimensioni del suo mercato. Lo dicono chiaramente le previsioni dell’OCSE sull’impatto economico di un’eventuale Brexit senza accordo sulle relazioni future: essa avrebbe inciso negativamente sul PIL del Regno Unito per 2-2.5 punti percentuali nei prossimi due anni, a fronte di un impatto negativo di soli 0,5 punti sul PIL dei Paesi UE (con alcuni Stati più colpiti di altri). 
In questo quadro, l’Unione ha avuto buon gioco ad impostare i negoziati, oltre che su un principio di stretta reciprocità nelle aperture dei rispettivi mercati, sulla difesa di priorità caratterizzate da una forte valenza di natura politica, ancor prima che economica, quali, ad esempio:

  1. l’indivisibilità delle quattro libertà fondamentali (libera circolazione di merci, persone, capitali e servizi), essenza del modello economico e sociale europeo;
  2. l’impatto di Brexit sull’indivisibilità … dell’isola di Irlanda.

Rilevante appare poi inter alia l’attenzione al rispetto dell’accordo di Parigi sul clima, quale presupposto essenziale del partenariato economico.

Quanto al primo profilo, nessun dubbio che UK abbia definitivamente abbandonato il mercato interno e l’Unione doganale. Si è infatti negato al Regno Unito il beneficio di un menù à la carte sul mercato interno, frustrando le aspirazioni di Londra di abbandonare solo la libera circolazione dei cittadini (tema dal quale aveva demagogicamente preso avvio lo stesso processo di allontanamento del Regno Unito dall’UE), per mantenere invece in essere le libertà più propriamente economiche.
Oggi, quindi, nessuna delle libertà fondamentali trova più applicazione generale tra UE e Regno Unito. Con la conseguenza che si vengono a creare due mercati distinti, governati da regole autonome tra loro. Ciò genera necessariamente nuovi ostacoli agli scambi di merci e servizi, dovuti primariamente alle divergenze di disciplina che caratterizzeranno i reciproci ecosistemi normativi, in entrambe le direzioni.
Sul piano dei servizi, ad esempio, viene meno il sistema di riconoscimento delle qualifiche professionali assicurato dal diritto UE.
Inoltre, i prestatori di servizi del Regno Unito, per poter operare liberamente nei mercati degli Stati membri, dovranno stabilirsi in un Paese membro UE, ed ottenere le rilevanti autorizzazioni nazionali. Nessuna deroga per i servizi finanziari cari alla City di Londra, sui quali non si esclude peraltro un futuro accordo. Questo il prezzo negoziale della scarsa disponibilità del Regno Unito ad accettare disposizioni ambiziose in materia di libera circolazione dei cittadini: salvo un regime di esenzione dal visto per i soggiorni di breve durata (inferiori a 90 giorni) e la tutela di alcuni diritti dei lavoratori, per viaggiare tra UE e UK occorrerà in futuro un passaporto e, nel caso di un soggiorno di lunga durata (superiore a 90 giorni), salve limitate eccezioni, anche un visto.
 

Uscita UE
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Foto di succo da Pixabay

Vero è che importanti concessioni su temi di interesse anche reciproco sono state fatte dall’Unione: così è avvenuto, ad esempio, in materia di dazi e contingenti doganali, laddove la circolazione delle merci conformi alle rilevanti regole di origine continuerà ad avvenire in regime di esenzione da quote e tariffe quasi integrale (privilegio senza precedenti negli esistenti accordi di associazione UE/Stati terzi), ferma restando la possibilità di svolgere altre tipologie di controlli sulle merci, come quelli sanitari. Tale beneficio è peraltro stato subordinato dall’UE all’accettazione da parte del Regno Unito di un impegno a salvaguardare i livelli esistenti di tutela dell'ambiente, tutela del lavoro, trasparenza fiscale e controllo sugli aiuti di Stato (cd. level playing field), per evitare fenomeni di dumping commerciale e concorrenza sleale. Ciò riguarda in particolare i livelli di tutela attuali (clausola di non regressione), mentre il Regno Unito ha rifiutato un impegno di adeguamento automatico del proprio ordinamento all’evoluzione futura del diritto UE.
E se su tali aspetti le Parti si sono date, su richiesta del Regno Unito, la possibilità di un riesame del patto tra quattro anni, l’importanza centrale di questa pattuizione è ben rappresentata dalla clausola in base alla quale essa non può essere sospesa, se non facendo cadere l’intero partenariato commerciale. Aspetto quest’ultimo negoziato sino all’ultimo momento, unitamente al tema delle quote di pesca, risultato politicamente (più che economicamente) sensibile per il Regno Unito, anche alla luce delle aspirazioni europeiste della “pescosa” Scozia.
 

Brexit: la questione irlandese
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Immagine da https://www.eubusinessnews.com/changes-to-eu-swiss-and-northern-ireland-nationals-rights-to-live-and-work-in-the-uk-2021/

La questione irlandese

Non si può tuttavia apprezzare in modo compiuto il senso dell’Accordo sulle relazioni future senza ricordare l’impatto che su di esso ha avuto tema relativo al mantenimento della pace nell’Isola di Irlanda. Tema sul quale, invero, l’Unione aveva già negoziato con successo nel quadro dell’Accordo di recesso, attraverso la firma del Protocollo sull’Irlanda e Irlanda del Nord. Tale Protocollo è volto a salvaguardare il contenuto dell’accordo del Venerdì Santo del 1998, che pose fine al conflitto trentennale nell’Isola di Irlanda, e impone tra l’altro il mantenimento di un confine poroso tra Irlanda del Nord e Repubblica di Irlanda.
La piena e tempestiva attuazione di tale Protocollo è rimasta una delle priorità per l’Unione europea anche nel corso della seconda tappa dei negoziati per l’accordo sulle relazioni future. Priorità per nulla scontata, visto che già nel settembre 2020 il Governo Johnson varava un bill che avrebbe consentito al Regno Unito di violare alcune disposizioni dell’Accordo di recesso e del Protocollo in questione. Solo a ridosso di Natale dello scorso anno, in fase di chiusura dei negoziati, in pendenza di una procedura di infrazione contro il Regno Unito, e anche grazie alla presa di posizione del Parlamento europeo che preannunciava il diniego della sua approvazione ad un partenariato commerciale che non assicurasse piena applicazione al Protocollo, il nodo è stato risolto, con l’impegno del Regno Unito a rimuovere le disposizioni controverse dal provvedimento nazionale e assicurare la piena applicazione dell’accordo di recesso, compreso il Protocollo sull’Irlanda del Nord, a partire dal 1 gennaio 2021.
È quindi evidente che l’Accordo di recesso è lì per restare e per continuare ad essere applicato, accanto e, anzi, come presupposto, dell’Accordo di scambio e cooperazione. In esso si riflettono probabilmente alcune delle priorità politiche più significative per l’Unione (si pensi anche alle tutele previste per i cittadini europei che hanno esercitato i diritti di circolazione in Regno Unito prima della fine del periodo transitorio). E allora, mi pare che si possa dire: Brexit è… ma l’Unione resta.

Immagine di copertina di Tumisu da Pixabay

di Chiara Cellerino