Da anni è in atto una guerra ai confini dell’Unione Europea. La macabra contabilità della governance necropolitica delle migrazioni e delle politiche restrittive e selettive adottate su scala europea ci restituisce un numero in costante aumento: almeno 25.000 morti dal 2014, secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. Nonostante questo, il numero di chi decide di partire e desidera raggiungere l’Europa aggirando confini fatti di muri, filo spinato, acque insidiose, guardie di frontiera armate, territori ostili e mortiferi, continua a crescere.
L’attuale conflitto in Ucraina, riportando la guerra nel cuore dell’Europa, ha generato un’ondata di solidarietà da parte della popolazione civile che ricorda la mobilitazione dell’estate del 2015 nell’accogliere i profughi della guerra in Siria; una solidarietà dal basso che sembra travalicare confini e barriere sociali ed è orientata a prendersi cura di chi si trova ora in un disastroso stato di necessità. Viceversa, l’accoglienza promossa dagli Stati per chi fugge dal teatro della guerra si rivela selettiva, riproducendo quelle linee del colore e dell’appartenenza nazionale che costituiscono il fondamento ideologico del razzismo: al confine Est della UE coloro che non hanno cittadinanza ucraina o i cui “tratti fenotipici” non corrispondono a quelli considerati tipicamente europei – leggi “bianchi” – continuano a essere ostacolati nel loro legittimo desiderio di libertà e sicurezza (come riporta un’inchiesta della ABC). Lo stesso governo polacco sta costruendo un muro lungo 186 chilometri lungo il confine con la Bielorussia, verosimilmente la più costosa opera per il controllo confinario – circa 356 milioni di euro – mai realizzata su territorio europeo; in questo caso, a venire intercettati ed esclusi con conseguenze spesso fatali – l’inverno del 2021 ha visto centinaia di migranti morire di freddo e di stenti – sono profughi iracheni, curdi, iraniani, afghani (si legga il report della ONG polacca Grupa Granica o il reportage fotografico apparso sul Guardian).
Da sempre, i diversi attori della solidarietà ai migranti in transito (gruppi informali, associazioni, Ong, movimenti laici e confessionali, ma anche singoli individui) esercitano un ruolo di primo piano, a volte criminalizzato dalle istituzioni a volte richiesto, in relazione alla migrazione “non autorizzata”: salvando vite nel Mediterraneo o portando supporto e opportunità di mobilità a chi vuole attraversare confini proibiti, siano essi esterni o interni all’Unione Europea. In questo quadro, il progetto di ricerca SOLROUTES (Solidarities and migrants' routes across Europe at large), attraverso la lente dei movimenti di solidarietà ai migranti in transito, intende descrivere, comprendere e spiegare la produzione incessante e turbolenta delle rotte migranti che rende permeabile lo spazio della “Fortezza Europa”.
Il progetto affronta questa sfida da un’angolazione innovativa attraverso un’esplorazione etnografica – e al tempo stesso fondata su metodologie e linguaggi filmici, visuali e artistici – di 50 nodi cruciali delle migrazioni “non autorizzate”: nel continente europeo, nei paesi della sponda sud ed est del Mediterraneo (Turchia, Tunisia, Marocco e regioni dell’Africa subsahariana occidentale), nelle regioni ultraperiferiche dell'UE in America Latina e nell’Oceano Indiano (Guyana francese, Mayotte).
SOLROUTES, nel corso dei sui 5 anni di attività, si propone di:
Il progetto SOLROUTES Solidarities and migrants' routes across Europe at large di Luca Queirolo Palmas, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all'Università di Genova, si è aggiudicato un ERC advanced grant 2021.