Vivere all’ablativo
Vivere all’ablativo
Il nuovo libro di poesia di Enrico Testa
Ha molteplici significati il titolo che Enrico Testa ha scelto per il suo quinto, notevolissimo libro di poesia (Ablativo, Torino, Einaudi, 2013). Molteplici come i valori e le funzioni che è in grado di assumere l’ultimo caso della declinazione nominale nelle lingue che, come il latino, prevedono la flessione del sostantivo. Reca in sé l’idea di allontanamento (moto da luogo), di provenienza e d’origine, quindi di distacco e di privazione (ablazione, appunto); indica un moto, un movimento che viola l’orizzonte stabile e rassicurante dell’essere ma che schiude, con il trauma della lacerazione, il germe (l’attesa) di una nuova possibilità.
Non sorprende che a fare da sfondo a questi versi sia spesso, come nei libri precedenti, il tema del viaggio (viaggio fisico, reale: qui con escursioni nei Balcani e in Sud America), che sottraendo il soggetto alla trafila opaca dei giorni manda in frantumi la sua percezione della realtà e lo costringe a una radicale ricomposizione del proprio io: un momento insieme conoscitivo e autoconoscitivo fatto di situazioni nuove e inattese, sideralmente lontano dall’idea di «vacanza» (ossia di vuoto) associata oggi all’azione del viaggiare, capace di allargare l’esperienza di sé e del mondo, di quella trama di affetti, figure ed eventi feriali sulla quale i versi di Enrico Testa, a differenza di molta poesia contemporanea, non cessano mai di fermare lo sguardo. In nome di un principio di socievolezza come disposizione alla relazione, alla cura gentile e attenta per l’altro, che talora assume accenti di alta intonazione etica.
Al tema del viaggio (fisico e metafisico questa volta) è associata però anche l’idea del «passaggio», un’altra parola densa di senso scelta non a caso come titolo dell’ultima sezione del libro: passaggio come trascorrere del tempo e delle generazioni, di padre in figlio, in quel ricombinarsi instancabile delle cellule della vita in cui risiede l’estrema possibilità di sopravvivenza per ciò che è costituzionalmente caduco; e passaggio come varco, apertura, sentiero, stretto e «incerto» magari, «come gli esili ponti di legno / sui roboanti torrenti di montagna» (p. 113) ma in grado di superare la soglia che separa la vita dalla morte, la luce dall’ombra, e rivelare in un lampo che «i veri officianti della cerimonia» di suffragio sono proprio coloro nel cui ricordo si rinnova anno dopo anno lo strazio della perdita (p. 113). Sono gli assenti, i morti, a rammendare pazientemente e amorevolmente «gli sbreghi sfilacciati della memoria» (p. 111) attraverso il ricordo di un gesto, il suono di una parola o di un nome, capaci a loro volta di generare ricordi. Attraverso quel veicolo basico dell’esistenza associata che è la lingua, il «ragnatelo esile e incerto» che «ci tiene [...] / ancora legati insieme» (p. 90) che lo storico della lingua Enrico Testa fa oggetto e argomento della sua straordinaria poesia.