Laurea honoris causa a Ivano Fossati: intervista, lectio e cerimonia

L'Università di Genova ha conferito la Laurea Honoris Causa in "Letterature moderne e spettacolo" a Ivano Fossati, cantautore, polistrumentista e produttore discografico, con una cerimonia che si è svolta lunedì 27 marzo 2023, alle ore 16, nell'Aula San Salvatore, in piazza di Sarzano 9 a Genova.

Prima dell'inizio della cerimonia, Raffaele Mellace, preside della Scuola di scienze umanistiche dell'Università di Genova, ha intervistato Fossati.

Intervista esclusiva a Ivano Fossati

Mellace intervista Fossati

Ispirazione, pensiero e sintesi nella musica discografica: la lectio magistralis di Ivano Fossati

 

L’ispirazione

L’ispirazione non ha limiti, è il territorio sconfinato dentro il quale ciascuno progetta il possibile e l’impossibile. Anche per la musica è così, o almeno lo è stato fino all’arrivo della prima tecnologia discografica, alla fine dell’800. Il fonografo. Il miracolo della riproduzione. Perché un miracolo doveva sembrare allora portarsi a casa le grandi orchestre, le arie d’opera, la voce dei più celebrati cantanti lirici. Oggi siamo assediati dalla sovrapproduzione di musica o di qualcosa che vorrebbe assomigliarle; per strada, in tassì, nei negozi, al ristorante, in ascensore. Anche troppo. Quell’antico stupore non lo possiamo nemmeno immaginare.

Nei primi anni del 1900 cominciano a diffondersi le registrazioni su disco: 78 giri, quattro minuti al massimo di musica. Sono perlopiù arie d’opera. Chi produce quei dischi sa che la sua clientela è la stessa che frequenta i teatri. I benestanti. Un fonografo nel 1910 ha un costo elevatissimo.

Le più famose arie d’opera vengono mutilate per poter essere contenute nei fatidici 4 minuti. Via le introduzioni orchestrali, via gli interludi e spesso via anche parti cospicue della composizione. Si salva solo quello che tutti conoscono, l’aria celeberrima che a casa la gente canticchia con le parole sbagliate dentro la vasca da bagno. Di conseguenza in quel periodo si produce un gran numero di dischi che fanno inorridire gli intenditori, ma accontentano i primi audiofili di bocca buona, che faranno però il successo dell’industria discografica che sta nascendo. Inutile dire che quelle registrazioni sono oggi molto ricercate dai collezionisti, come le monete coniate a rovescio e certi francobolli rari.

Gli autori di canzoni (allora si diceva canzonette) erano perlopiù musicisti preparati, venivano da studi di conservatorio, e vedremo come questo potesse paradossalmente rappresentare un handicap. Avevano perlopiù in mente, data la loro formazione, la canzone, o canzonetta, declinata come un’opera lirica in sedicesimo. Le loro partiture originali contengono lunghe introduzioni orchestrali, altrettanto lunghe strofe, brevi interludi e poi quella parte centrale che qui da noi chiamiamo, o meglio chiamavamo, ritornello; seguito da ripetizioni e da un pomposo finale.

Questi autori non si fanno grossi problemi se in seguito la canzone viene tagliata nella versione discografica e il pubblico conoscerà attraverso la radio (siamo ormai negli anni 30) solo un riassunto spiccio della composizione. Nasce così il primo patto degli artisti con l’industria: sacrificio e asservimento dell’ispirazione in cambio di notorietà e possibilmente di ricchezza. Una sorta di patto con il diavolo. Ne avrebbe in effetti tutte le caratteristiche e l’apparenza. Ma io mi permetto di avere qualche dubbio in proposito, non sono sicuro che le cose stiano proprio in questi termini. Ci arriveremo fra poco.

Il pensiero

Fin qui l’ispirazione in lotta contro il tempo, i 4 minuti concessi per esprimersi. E il pensiero? Il pensiero abita un piano sopra l’ispirazione. Ogni tanto scende, batte sulla spalla con le dita e l’ispirazione si mette in moto, si accende di luci e campanelli come un flipper. Ma il pensiero è un concetto dentro il quale ci si perde, è una parola gigantesca, ingombrante, filosofica, insondabile. Gli autori di musica e canzoni, i narratori da tre minuti, anche i più grandi, come si regolano? Attraverso la sintesi; l’unico, formidabile strumento dato per comunicare ed emozionare quasi all’istante. Più facile a dirsi che a farsi ma è la sola via possibile.

Tra la fine degli anni 50 e i primissimi anni 60 del secolo scorso accade qualcosa mai visto prima: l’incontro/scontro fra: 1) una nuovissima tecnologia: il disco microsolco a 45 giri.  2) la riverberazione massiccia, attraverso l’Inghilterra, di molta musica del sud del mondo. Soprattutto il blues che è padre di quasi tutta la musica discografica, leggera, pop, rock o comunque la si voglia chiamare. 3) una nuova generazione di musicisti–autori, autodidatti, spesso di grande talento e di grande determinazione; che però la porta di un conservatorio non l’ha mai varcata.  Adesso il tempo disponibile su disco scende addirittura a due minuti e mezzo. Questo per i nuovi autori non è un problema: loro scrivono già in sintesi e non patiscono nessuna costrizione. Non lo hanno studiato a scuola il modo veloce di esprimersi: fa parte del loro lessico quotidiano, del loro mondo e soprattutto del loro tempo. Utilizzano slogan, espressioni gergali, fanno uso di crasi e di invenzioni fonetiche. Nei due minuti e mezzo/tre che hanno a disposizione stanno comodi come a casa propria. La sintesi nelle primissime canzoni dei Beatles è da manuale: nessuna parte necessaria viene tralasciata, tutto è fulmineo, organico e simmetrico, in una parola: efficace. La musica nera che hanno molto ascoltato è una grande scuola di sintesi e nelle loro canzoni ce n’è più di una traccia, il resto viene dal talento e dalla curiosità. Così il pensiero viene addomesticato dall’intelligenza, costretto ad abitare in spazi ristretti, seppure rimanendo nitido. Anche artisti come Bob Dylan e Paul Simon, soprattutto all’inizio, combattono la loro battaglia contro il tempo, hanno anche loro a disposizione solo pochi minuti, come chiunque altro. E allora cambiano la forma-canzone da dentro, dal contenuto.  Con la forza dell’ispirazione e del pensiero che la sovrasta. Consapevoli anche loro di non poterne forzare i confini.

La sintesi

Gli artisti, i migliori, i più grandi hanno sempre guardato verso l’alto. Le loro biografie e le confessioni fatte a vario titolo sono piene di riferimenti alla letteratura e alla poesia. Quasi tutti citano un ispiratore, una guida: Faulkner, Kerouac, Ferlinghetti, Gregory Corso. Chi si dice folgorato da Henry Miller e chi da Céline. In tanti, uomini e donne, ammettono di dovere qualcosa alla scrittura asciutta e diretta di Hemingway. Fanno perlopiù musica rock ma hanno quasi tutti rivolto lo sguardo al di sopra di sé. E non solo verso la letteratura o la poesia (soprattutto quella del Novecento) ma anche verso “l’altra” musica. Paul McCartney, mentre scriveva “Lady Madonna” sappiamo che frequentava i concerti di musica contemporanea (es: musica di Luciano Berio). Il leader degli Who, Pete Townshend, mentre faceva a pezzi le sue chitarre sul palco per la gioia del pubblico, si faceva ispirare, quasi in segreto, dalla musica minimalista di Terry Riley. E Jimi Hendrix da quella di Stravinskij. Di queste ispirazioni rimane sempre una traccia nitida. L’ispirazione piove dal cielo ma occorre essere pronti e curiosi, guardare in alto.

Per me invece, quando avevo più o meno diciott’anni, c’è stato Cesare Pavese. Col suo sguardo modernissimo, quasi cinematografico sulle cose. Coi suoi scenari allargati, le colline delle langhe filtrate attraverso tanta letteratura americana (che amava) e descritte col grandangolo; vaste, come scenari alla Joseph Conrad, vaste come in fondo non erano mai state. E poi Georges Simenon che non ha troppo tempo per gli aggettivi, e ci concede, per immaginare le sue ambientazioni, solo brevi tratti di penna e di colore. Il lavoro lo fa fare a noi che leggiamo. E tutto è perfetto, funziona, noi immaginiamo e vediamo, esattamente come vuole lui. È una grande lezione per un narratore da tre minuti come sono anch’io. E poi, per puro esempio, voglio citare Irvine Welsh, che mostra magistralmente come dire solo il necessario, ma efficacemente, anche quando il necessario deve essere duro, intricato, turpe, cinico e sarcastico insieme. Anche Irvine Welsh è di grande utilità, dato che oggi tutti parliamo più come lui che come Dostoevskij, e il linguaggio si modifica rapidamente, giorno per giorno. “Il segreto di annoiare sta nel dire tutto”, sono le parole di Voltaire che bisogna tenere a mente, soprattutto quando sappiamo che la musica è un nastro trasportatore, che non aspetta.

Metodi di sintesi letteraria-musicale li ho sempre personalmente ricavati dai nostri dialetti e dalle lingue diverse dalla mia, ritraducendo poi in italiano. Le espressioni napoletane messe in musica si prestano a rapide dolcezze carezzevoli. Il genovese, utilissimo nella ricerca di forme stringate, è, come sappiamo, lapidario e sarcastico insieme. Le formule di costruzione semantica dell’inglese risultano per un autore di canzoni quasi sempre scorrevoli e adattabili, anche se con il rischio di qualche eccessiva semplificazione. E poi c’è il portoghese, una delle lingue più musicali che si conoscano, che dal suo interno offre soluzioni inaspettate di grande aiuto.  Il nostro italiano è amabile, completo, ricchissimo di sfumature e profondità ma spigoloso, e non sempre amico della metrica musicale più attuale. Sappiamo che garantisce bellissimi risultati solo a costo di cura, inventiva e laboriosità.

Oggi

Nemmeno la tecnologia digitale ha vinto sul tempo, cioè sulla durata della musica. Adesso che quest’ultima non avrebbe più limiti, nessun network trasmetterebbe brani musicali di sei, sette minuti o più. In rete è diverso, ma nella pratica produttiva comune poco è cambiato, e forse è un bene. La musica che può permettersi spazi più ampi è un’altra, differente, ha altre strutture e obiettivi diversi.

Intanto la lunga marcia della musica proveniente dal sud del mondo si può considerare conclusa. La black music ha vinto quasi su tutto, ha arricchito e impreziosito le nostre modalità espressive. Le classifiche sono dominate dal rap in tutte le sue forme e da un R&B, che col Rhythm and Blues delle origini ha poco a che fare.

La capacità fonetica-vocale di alcuni rapper a volte è notevole: agiscono sul ritmo come percussionisti, scomponendo il tempo e creando fra il significato e il suono delle parole, vere e proprie poliritmie complesse. Mi chiedo cosa ne penserebbero i futuristi. Marinetti ascoltando un rap si sentirebbe finalmente appagato? Chi può escluderlo.

Questi generi musicali, figli e nipoti del blues, della black music, con influenze latine e caraibiche si fondono e si influenzano a vicenda. Accerchiano e assediano anche quella che era la forma canzone che conosciamo, e la canzone si concede volentieri a  questa trasformazione, lascia entrare dentro la propria struttura modalità  e linguaggi differenti. Non nuovi però, perché il rap viene da lontano e non è certo una moda del momento. Anch’esso si modificherà, già adesso si lascia integrare da forme ritmiche-melodiche di origine orientale e magrebina, ma è qui per restare.

Se oggi penso alla trasformazione della musica (e dell’ispirazione che la genera) in prodotto discografico, in emozione portatile, istantanea come un file digitale, allora penso a quel maestoso insieme rotolante, in continuo movimento, fatto di alto e di basso, di musica sublime, di arte, di idee folgoranti, letteratura e parole toccanti, che ha sempre condiviso il proprio cammino con tanta piccola musica, forse insignificante e presto dimenticata. È quell’insieme, quel tutto, il prodotto meraviglioso di cui parliamo. Musica alta, musica leggera e musica leggerissima, io ho amore per tutte. Quell’insieme rumoroso, chiassoso, incessante che ci ha cresciuti, ci accompagna e ci spinge avanti guardando verso l’alto al nostro posto, soprattutto quando noi ci stanchiamo o non siamo più capaci di farlo. Musica e pensieri nati per essere commercializzati e per fare soldi, che tuttavia dall’interno di un enorme ingranaggio sono in grado di mostrare i cieli più alti, di mettere le anime a nudo, di insegnarci qualcosa passo dopo passo. Senza l’aria di volerlo o di poterlo fare.

Se questa meraviglia è il risultato del patto fra gli artisti e l’industria discografica e se, come si dice, in questo patto faustiano c’è lo zampino del diavolo, allora non sono certo che l’industria sia il diavolo. Sarebbe un diavolo perdente.  L’ispirazione è ancora lassù al suo posto, integra, fulgida, pronta a tutto come sempre; pronta per nuove generazioni di artisti visionari, mentre l’industria, dobbiamo riconoscerlo, ha conosciuto tempi migliori.

Per questo ho il sospetto che nel vecchio patto: “ispirazione e talento in cambio di fama e denaro” la parte del diavolo astuto l’abbiano fatta in realtà (e di certo inconsapevolmente) gli autori e gli artisti. Proprio tutti, i grandi e i dimenticati.

Ho il sospetto che quel giorno lontano, per una volta, forse il diavolo eravamo noi.

La registrazione completa dell'evento

Cerimonia di conferimento laurea honoris causa a Ivano Fossati

Le foto dell'evento

di Eliana Ruffoni