Una nuova centralità della casa

Nel frangente della crisi innescata dall’epidemia di Covid-19, uno dei più significativi tratti di mutamento sociale è rappresentato dalla questione della casa. Nel quadro della strategia di contenimento epidemiologico la casa e lo stare a casa, è divenuta oggetto di campagne social (#iorestoacasa) ma anche elemento paradigmatico di una nuova forma di organizzazione sociale, chiave di volta di un ordine fondato sull’abolizione, pressoché totale, dello spazio pubblico e degli spazi comuni nella loro forma materiale.
Gli spazi comuni online sono, viceversa, un fiorire di piattaforme di comunicazione, condivisione, scambio.
La parola casa, il concetto di casa, nozione quanto mai ambigua, si riferisce tanto a un bene materiale quanto all’aggregazione di un nucleo familiare, ed è carica di molteplici significati sociali e simbolici, non solo positivi: nel giro di pochissimo tempo la casa ha assunto così un’importanza cruciale nel dibattito pubblico.

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La dualizzazione della società

La società italiana, come nei film di genere catastrofico, si è in breve dualizzata; da una parte chi si riconosceva in quella che potremmo definire come una sorta di ideologia dell’home-pride: una congerie di stereotipi e idealizzazioni dello spazio domestico come luogo della sicurezza, della positività, dell’ottimismo e della tradizione, compresi riti di identificazione collettiva: dal cantare Azzurro sul balcone tutti alla stessa ora, alle lenzuolate con le scritte ‘andrà tutto bene’, fino all’esposizione della bandiera, che recupera la retorica patriottarda della nazione come corpo sano.
Dall’altra, la definizione, per sottrazione, di una categoria composita di devianti, identificati ora in chi si sottraeva ai riti di canto e condivisione dal balcone, ora nei runner, colpevoli di anteporre il benessere individuale alla celebrazione della sofferenza collettiva. Questa categoria in certi momenti è sembrata arrivare ad includere persino le persone che, costrette dalla loro condizione di dipendenti, di autonomi a basso reddito o di lavoratori inseriti in settori essenziali, non potevano assentarsi dal lavoro, né tantomeno praticare lo smartwork; individui che, in ragione di uno status che non permetteva loro di restare a casa sembrano costretti in una sorta di cittadinanza diminuita.

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La terza categoria: chi ha agito il conflitto

È interessante rilevare che tra i pochi soggetti ad agire il conflitto vi siano: in primis le persone soggette a misure di restrizione della libertà personale che, in un sistema carcerario superaffollato reclamavano il diritto a scontare la pena a casa, in condizioni sanitarie migliori, in secondo luogo i soggetti più vulnerabili del mercato del lavoro (operai, lavoratori precari, ecc.) che attraverso scioperi ed altre azioni rivendicavano la priorità diritto alla salute, identificato con lo stare a casa, sulla produttività. Due movimenti diversi che tuttavia hanno rivelato non solo la non universalità del contenimento domestico come contrasto alla diffusione del virus, ma anche il carattere iniquo di questa misura.

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Feticizzazione della casa

Si può dire che la casa sia stato oggetto di un processo di feticizzazione, che ne ha appiattito ogni spazio d’ombra e ogni contraddizione. Sembra superfluo ricordare che la casa non è la stessa per tutti, c’è una differenza incommensurabile tra l’esperienza dell’abitare, ad esempio, in un alloggio di edilizia residenziale pubblica, e quella dell’abitare in una villa con giardino affacciata sul mare: la reclusione accentua le differenze esistenti tra le classi sociali. Eppure, è necessario.
La questione non può essere ridotta alla sola classe sociale perché la casa può anche essere un luogo di violenza e di oppressione. In questo senso, solo il movimento femminista ha messo in evidenza come la casa sia tutto tranne che un luogo pacificato. I network delle famiglie con persone disabili e la galassia di soggetti che lavorano con homeless, migranti, disabili, bambini, hanno cercato di far emergere nel dibattito pubblico come l’isolamento e l’allentamento dei legami sociali possano radicalizzare le condizioni di marginalità ed esclusione sociale, aumentando, invece che diminuire, il rischio di ammalarsi, o di accentuare altri fattori patologici.
Difficile adesso comprendere quali possano essere le conseguenze a lungo termine di questa nuova centralità della casa. Tuttavia, è lecito pensare che mentalità, orientamenti, retoriche, rappresentazioni sociali e governamentalità generate dalla crisi resteranno per un po’ di tempo nel dibattito pubblico, aprendo nuovi scenari. Il tempo dirà se si tratta di scenari di reazione o di emancipazione.

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di Enrico Fravega