Gli Oscar 2020
«Quanto ha fatto male l’Academy Award quest’anno. Abbiamo avuto tanti problemi con la Corea del Sud per il commercio, e loro l’hanno premiata con il miglior film dell’anno». Parola di Donald Trump, il quale, poco dopo, durante un comizio in Colorado, ha invitato a «tornare ai classici dell’epoca d’oro di Hollywood», portando l’esempio di Via col vento. Che, vale la pena di ricordare, oltre a essere un film indipendente (cioè, a ben vedere, produttivamente più simile al premiato Parasite che non al classico per eccellenza della Hollywood classica, Casablanca), è anche un campionario di stereotipi razzisti. Ma, appunto, il recensore è Trump, che sbaglia due volte: perché avrebbe potuto lasciar perdere le dispute economiche per scagliarsi contro l’assunto di base di Parasite (Gisaengchung), vincitore dell’Oscar 2020 per il miglior film (ma anche di quelli per la regia, la sceneggiatura originale, il film internazionale, dopo la Palma d’oro a Cannes). E in quel caso avrebbe avuto ragione (almeno agli occhi dei suoi elettori). In effetti, niente di più non-americano, se non proprio di anti-americano, del film di Bong Joon-ho: nessuna linea dritta tra buoni e cattivi, nessun ordine sociale, nessun eroe e, soprattutto, nessuna speranza di salvezza, redenzione, conquista o miglioramento. Tutti parassiti, e cioè imperfetti, deboli, rovinati dalla vita (chi dalla troppa ricchezza, chi dalla troppa povertà), e insomma umani.
Quest’anno, in ogni caso, di film “all’americana” (anche nel senso trumpiano del termine), ce n’era a ben vedere solo uno, l’“arty-chic” 1917 di Sam Mendes, stucchevole mix di fragoroso eroismo vecchio stile e furbizia stilistica (e si è giustamente aggiudicato solo tre statuette “tecniche”). Joker (Tod Phillips), col suo iperreralista torpore morale, Jojo Rabbit (Taika Waititi), con la sua satira più pericolosa che divertente, o C’era una volta a Hollywood (Once Upon a Time... in Hollywood) di Quentin Tarantino, con la sua violentissima reinvenzione ucronica del passato, non avrebbero comunque accontentato il Presidente. E forse, un paio d’anni fa, in un momento di maggior splendore del movimento MeToo (oggi sprofondato dall’arroganza del “complesso della vittima”: leggere Bianco di Bret Easton Ellis per una sintesi), il bellissimo adattamento di Piccole donne (Little Women) scritto e diretto da Greta Gerwig avrebbe avuto qualche chance in più di farsi notare tra Corea e Stati Uniti. Si è portato a casa solo il premio per i migliori costumi, a dimostrazione del fatto che è stato frainteso quasi da tutti, sicuramente dall’Academy.
Eppure, nell’anno dell’Oscar onorario a David Lynch (il quale, ritirandolo, si è limitato a ringraziare e poi, rivolto alla statuetta, a commentare, molto lynchianamente, «You have a very interesting face»), era quasi inevitabile che accadesse qualcosa di “diverso”. E non tanto perché Parasite non è un film statunitense – il suo regista ha comunque alle spalle almeno due film mezzo americani, Okja (2017), co-prodotto da Brad Pitt, e Snowpiercer (2013) –, ma perché l’Academy, che da sempre usa gli Oscar come lussuosa vetrina per strategie di mercato a lungo termine, sembra aver scelto, questa volta, di far valere solo le ragioni del cinema, inteso come arte e non come industria. Vale a dire: ha semplicemente premiato l’opera più bella, originale, importante tra quelle selezionate nella categoria miglior film. Ha fatto la cosa giusta, anzi l’unica che si poteva fare. E forse, in fondo, è proprio questo ad aver infastidito Trump: che normalmente sbaglia per dovere e capriccio, più che per incapacità o strategia.