Abbraccia un albero per me. Lettere di Running Bear
Abbraccia un albero per me. Lettere di Running Bear
di Christine Kaufmann (Effigie Edizioni)
Perché voler rendere pubblica una corrispondenza personale tra una tedesca che vive a Framura, nell’entroterra ligure, e un indiano nel braccio della morte del carcere di San Quintin in California? Christine non ci credeva che l’allora governatore Schwarzenegger avrebbe permesso l’esecuzione di un vecchio malato di diabete, quasi cieco e con una storia di infarti alle spalle; quando ciò avvenne penso che volesse condividere la sua frustrazione, la sua impotenza e il forte senso d’ingiustizia che provava.
Ho “incontrato” Running Bear molti anni fa attraverso un suo racconto, “La mia prima arancia”, che pubblicammo sulla rivista Tepee (12, 1990) che dirigo, e attraverso Henny Rip, una collaboratrice che corrispondeva con vari carcerati nativi, e poi Marco Cinque, Patrizia Ribelli e molti altri che volevano far qualcosa di concreto per gli indiani in prigione e ci riuscirono, almeno a livello umano, come ha fatto anche Christine Kaufmann. Riuscirono a portare all’interno del carcere sentimenti di amicizia, solidarietà, condivisione e credo che abbiano dato momenti di serenità a chi, come Running Bear, stava rinchiuso in un “piccolo tepee di cemento e acciaio” e godeva raramente della luce del sole, della vista del cielo e non aveva mai la bella sensazione di essere a contatto con la terra, la natura: “Non si può guardare fuori, non ho più visto il verde dell’erba o degli alberi, o la luna, o le stelle…” .
Il libro è toccante e aiuta a riflettere sull'esperienza della prigione e sulla crudeltà della pena di morte, oltre alla sua inefficacia dal punto di vista sociale. Viene anche il desiderio di saperne di più sul sistema giudiziario statunitense, molto discriminante a seconda della situazione sociale dell'accusato: “… se avessi un buon avvocato… tornerei a stare sulla Madre Terra in brevissimo tempo… Qui nel braccio della morte non si vede mai un uomo ricco…” (Tepee 12, 1990).
Non ci dà una chiara percezione della catena di solidarietà verso i prigionieri nativi che si era attivata e di un vasto movimento contro la pena di morte ancora attivo; penso, per esempio a singoli e associazioni, come Claudio Giusti, Amnesty International e il Comitato Paul Rougeau, che continuano a denunciare quanto accade nel mondo, mettendo soprattutto in rilievo i paesi (che si ritengono civilizzati) dove ancora viene praticata.
Da quello che traspare dalla corrispondenza, Running Bear aveva poche conoscenze sulla sua cultura cherokee, ma manteneva alcuni valori legati alla spiritualità dei nativi, che sicuramente lo hanno aiutato nel suo difficile percorso verso l’esecuzione: “… non ho paura della morte, ma non voglio morire per una cosa di cui non sono colpevole…” .