Un dipinto “incontournable” di Monet in mostra a Genova
Con un’intelligente ed eccezionale iniziativa - eccezionale come il periodo che stiamo vivendo, intelligente per il significato culturale che riveste - Palazzo Ducale propone dal mese di giugno la mostra 5 minuti con Monet.
A tu per tu con le Ninfee, un’esperienza immersiva che invita il visitatore a confrontarsi “in solitaria” con un capolavoro dell’arte moderna: uno dei grandi dipinti della serie delle Ninfee, realizzata da Claude Monet a partire dalla fine del XIX secolo. Nel piccolo catalogo edito per l’occasione (che accoglie anche mirati contributi di Ivano Fossati e Sandro Veronesi) chi scrive ha cercato di spiegare perché il dipinto, eseguito tra il 1916 e il 1919, è considerato, come si legge sul sito del Museo Marmottan dove è custodito, incontournable, che in francese suona come “imperdibile”, ma anche “iconico”.
La storia
Per capirlo dobbiamo fare qualche passo indietro nel tempo e risalire ai primi anni Novanta dell’Ottocento quando l’artista si dedica alla produzione pittorica in serie, concentrando la propria attenzione su un solo motivo raffigurato sulla tela in differenti condizioni di luce, d’atmosfera o anche di stagione, come accade nei Pagliai dipinti tra il 1890 e il 1891 riproducendo i covoni di grano che si trovano in un campo vicino alla sua abitazione a Giverny, nell'Eure, in Normandia.
Le parole scritte nell’autunno 1890 al critico Gustave Geffroy chiariscono le intenzioni di queste nuove ricerche: “Sgobbo molto, mi ostino su una serie di diversi effetti (dei covoni), ma in questo periodo il sole declina così rapidamente che non riesco a seguirlo […] vedo che bisogna lavorare molto per riuscire a rendere quello che cerco: ‘l'istantaneità’, soprattutto l'involucro, la stessa luce diffusa ovunque, e più che mai le cose facili, venute di getto, mi disgustano” (Gustave Geoffroy, Claude Monet. Sa vie, son temps, son œuvre, Crès, Parigi 1922).
A questa prima serie segue quella dei Pioppi (1891), dipinti sulle rive dell’Epte, e poi quella delle Cattedrali di Rouen (1893-1894) in cui l’elemento architettonico si sostituisce a quello naturale, ma con la medesima volontà di indagare la relatività del fenomeno percettivo. A spingere l’artista verso queste nuove esperienze pittoriche è anche il suo interesse per le stampe giapponesi, prodotte anch’esse in serie (si pensi, per esempio, alle famose Cento vedute del monte Fuji di Hokusai); Monet ne è appassionato collezionista, tanto da raccoglierne, anche grazie all’aiuto di Tadamara Hayashi, mercante e collezionista nipponico trasferitosi a Parigi, oltre 200 esemplari che col tempo rivestono le pareti della sua casa e del suo atelier insieme ai propri dipinti e a quelli eseguiti dai suoi amici. Sono le affascinanti Ukiyo-e (“immagini del mondo fluttuante”), incisioni che riproducono scene di vita quotidiana. Un interesse che Monet condivide con molti artisti del suo tempo per le nuove soluzioni che esse suggeriscono, distanti dalla mimetica tradizione pittorica occidentale: la sintesi delle forme e il valore compositivo della linea, le vivaci e piatte campiture cromatiche, il punto di vista decentrato e a volo d’uccello.
Le Ninfee
È proprio questa passione a indurre il pittore a realizzare nel giardino della sua abitazione uno straordinario paesaggio acquatico, diventato presto famoso in tutta la Francia. Per poterlo realizzare Monet ricorre a Hayashi, il quale fa arrivare dal suo paese d’origine le piante indispensabili, tra cui le ninfee: con i salici piangenti, i glicini, gli iris, le peonie e l’arcuato ponte di legno, esse compongono l’ambiente giapponese del giardino di Giverny, ispirato anche nella sua disposizione agli antichi giardini orientali, concepiti come luoghi di studio e meditazione. La sua bellezza ispira all’artista specifici dipinti tra quelli dedicati, dalla fine del XIX secolo ai suoi ultimi anni di vita, all’amato giardino della sua dimora; dipinti chiamati da Monet stesso “paesaggi acquatici”. Il ponte giapponese gli permette di vedere il bacino delle ninfee da diversi punti di vista e di sperimentare quella visione dall’alto tanto ammirata nelle stampe giapponesi che lo porta a sopprimere ogni tradizionale riferimento spaziale e a esperire una nuova dimensione dove gli elementi naturali, a seconda delle loro differenti qualità materiche e dell’incidenza della luce su di essi, sono tradotti con pennellate di diverso spessore, fluide e trasparenti oppure dense e frammentate, in uno spazio tutto pittorico che supera il convenzionale concetto di forma ed è, in definitiva, alternativo a quello naturale seppur ad esso ispirato. È in questo senso che Monet apre la strada all’astrazione: nel senso etimologico del termine; astrazione che in seguito, nel corso del Novecento, si svilupperà in più radicali esperienze non oggettive o aniconiche.
La mostra
Monet continua a dipingere le Ninfee anche negli anni della prima guerra mondiale: esse nascono in un oasi di quiete e contemplazione, fuori dal tempo qual è il giardino di Giverny; l’imitazione della realtà ha lasciato il posto alla creazione di un’altra verità, quella della pittura.
Queste caratteristiche risaltano in modo particolare nelle grandi Ninfee ora esposte a Palazzo Ducale: i fiori che galleggiano sulla superficie dello stagno, le foglie dei salici piangenti che lo sfiorano dall’alto, l’acqua in cui si riverberano questi stessi elementi insieme ai riflessi bianchi delle nuvole e cerulei del cielo, insomma i molteplici stimoli visivi offerti all’artista immerso nel suo giardino, sono restituiti tramite il colore su una superficie piana, antiprospettica, in uno spazio “fluttuante”, nel quale la voluttà della natura diventa icona di un inatteso e innovativo linguaggio pittorico.
Ecco perché Ninfee è un dipinto incontournable.