L’amministrazione pubblica al tempo di Musk

A quasi un mese dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, l’attenzione negli ultimi giorni si è concentrata sulla politica estera, con le controverse iniziative riguardanti i conflitti in Ucraina e Medio Oriente. Sul fronte interno, invece, a far discutere sono le spregiudicate manovre di Elon Musk, a capo del Department of Government Efficiency (D.O.G.E.). La task force sta procedendo a un ritmo frenetico e con determinazione per trasformare l’intero apparato amministrativo americano.

Come ogni anno in questo periodo mi accingo ad iniziare le lezioni del corso di Scienza dell’amministrazione. Fra tutti è l’insegnamento che preferisco: si rivolge a studenti triennali di scienze politiche e questo mi dà il privilegio di introdurre dei classici del pensiero organizzativo che spero forniranno loro una rappresentazione meno naive e meno legalistica dei processi di governo.

L’insediamento dell’amministrazione Trump e in particolare il mandato speciale assunto da Elon Musk alla guida del D.O.G.E. rendono l’inizio delle lezioni diverso, caratterizzato da un profondo senso di disagio e impotenza. In un articolo-manifesto apparso sul Wall Street Journal il 20 novembre 2024, Elon Musk e Vivek Ramaswamy hanno proposto, anticipando le azioni del D.O.G.E., un ridimensionamento radicale degli apparati amministrativi americani, rappresentati come fuori controllo, sia nel senso del legame di accountability con istituzioni politiche elettive, sia nel senso della loro tendenza a crescere a prescindere dalle funzioni svolte.

Come molti osservatori stanno sottolineando, queste iniziative avranno un effetto dirompente e prevedibilmente negativo su settori vitali del governo del paese che da ottant’anni ha dato forma da solo all’ordine mondiale. Benché non si basi su argomenti nuovi, il manifesto di Musk e Ramaswamy tocca direttamente alcuni dei concetti centrali delle scienze amministrative, in parte svuotandoli e in parte travisandoli in maniera grottesca. Penso in particolare all’idea di efficienza e di lealtà. L’ironia è che si tratta di concetti che proprio autori americani hanno contribuito in maniera decisiva a sviluppare in senso empirico e applicato; proprio lo sviluppo delle scienze sociali, è uno dei contributi fondamentali che Stati Uniti hanno dato allo sviluppo della conoscenza nell’ultimo secolo.

elon musk
La visione di Elon Musk degli apparati amministrativi americani prevede ridimensionamenti radicali.

L’ossessione per efficientamento degli apparati amministrativi

L’ossessione per l'efficienza non è un’invenzione di Elon Musk. L’incipit dei Principles of Scientific Management di Friedrick Taylor è caratterizzato dallo stesso spirito palingenetico volto ad una migliore organizzazione delle attività pubbliche e private. Quello che stride della proposta e delle prime iniziative di Musk non è tanto la ricerca dell’efficienza, ma cosa egli intenda per efficienza. L’enfasi è stata posta infatti sul taglio dei costi, fino alla cessazione di interi programmi, come nel caso emblematico di USAID, l’agenzia che gestisce gli aiuti esteri e fornisce assistenza a progetti di sviluppo.

Assumere che basti tagliare dei costi, siano essi stipendi, acquisti, canoni di locazione o viaggi, vuol dire dare per scontato che i programmi a cui vengono tolti finanziamenti possano continuare a produrre lo stesso livello di servizio anche se decurtati dell’entità individuata dai razionalizzatori. Nel caso di un programma che viene terminato, l’assunzione è più radicale ed equivale a dire che quel programma era sostanzialmente inutile.

Nel testo Il Comportamento Amministrativo, Herbert Simon notò che in origine i concetti di efficacia ed efficienza erano intercambiabili. Si è reso necessario distinguerli e ridefinirli nel momento in cui, dal regno della fisica e delle sue applicazioni ingegneristiche, venivano applicati alle attività umane. Infatti, se è scontato attribuire una specifica funzione ad una macchina, e quindi misurarne l’efficienza in termini di rapporto fra input e output, è più difficile valutare il rendimento di un programma di spesa. Anzitutto occorre ridefinire l’efficienza in termini allocativi, prendendo in considerazione anche i costi del non-fare, o di fare qualcos’altro. La situazione si complica se consideriamo che una politica può legittimamente avere più obiettivi, che questi possono cambiare nel tempo, e che la sua implementazione può diluire quel rapporto di razionalità strumentale con gli obiettivi iniziali. Queste considerazioni, banali per chi studia processi di governo, non debbono essere intese in senso fatalista, come un invito a rinunciare a politiche efficienti; al contrario, per Simon l’efficienza è il criterio-guida di ogni organizzazione capace di adattarsi all’ambiente, tuttavia per raggiungere gli obiettivi non basta agire sui costi, ma occorre confrontarli costantemente con i valori da realizzare ed i livelli di soddisfazione che di volta in volta il processo politico elabora.

Questo implica che qualsiasi visione politica, per quanto radicale, debba essere declinata in programmi operativi in cui i valori sono tradotti in obiettivi e questi in indicatori di performance. Più importante ancora è che i riformatori elaborino un modello causale alla base del cambiamento istituzionale proposto e che lo giustifica da un punto di vista razionale. È la ragione per cui le task force che hanno il compito di innovare di solito producono dei documenti di programmazione che permettono lo scrutinio pubblico delle loro strategie. Nel caso del D.O.G.E., tutto questo è semplicemente assente: l’unità ha iniziato ad operare nel completo segreto rispetto alle proprie intenzioni operative.

Donald Red - opera di TvBoy 2024
Donald Red - opera di TvBoy 2024

Premiare la lealtà non sempre favorisce la competenza

Si dirà che, alla luce del risultato delle elezioni presidenziali del novembre 2024, i valori e i livelli di soddisfazione sono radicalmente cambiati ed è quindi ragionevole che l’amministrazione si allinei con il nuovo mandato. Nessuno nega che, entro una certa misura, gli apparati amministrativi applichino le politiche del governo in carica e, se necessario, vengano riorganizzati per consentire che questo avvenga al meglio. Tuttavia, questo non ha a che fare con l’efficienza, ma attiene alla volontà e capacità di un esecutivo di controllare la macchina amministrativa.

Dietro i richiami al carattere non democratico degli apparati amministrativi nel mirino del D.O.G.E. c’è infatti il problema organizzativo della lealtà. Ogni vertice politico percepisce l’esigenza di poter contare su uno staff di cui potersi fidare, affinché le decisioni siano eseguite in maniera conforme alla propria volontà. Tuttavia, premiare la lealtà ha spesso dei costi in termini di competenza. I funzionari in carica sono percepiti come non controllabili o addirittura ostili e tuttavia è molto probabile che siano depositari di informazioni e conoscenze utili al governo, a prescindere dal suo indirizzo.

In The Study of Administration, saggio che si ritiene abbia fondato la scienza dell’amministrazione negli Stati Uniti, l’ex presidente Woodrow Wilson invitava i suoi connazionali ad abbandonare i sospetti verso i modelli europei solo perché propri di paesi privi di un pedigree democratico.  Professionalizzare l’amministrazione pubblica appariva necessario per superare il dilettantismo e la corruzione dello spoil system: i costi di un’amministrazione intimamente democratica. Gli stati Uniti erano già forti abbastanza da non temere per la loro democrazia, che anzi avrebbe dovuto fondersi col professionalismo europeo e migliorarlo, sottoponendolo al pubblico scrutinio, che invece in Europa mancava.

La riformulazione del problema burocratico operata da Wilson troverà la sua raffinazione teorica nella metà del secolo successivo. Herbert Simon dedicò un capitolo intero al tema della lealtà organizzativa, che non intendeva come imposizione di una rigida disciplina, tema che attiene ai rapporti di autorità, ma come quei processi di identificazione attraverso i quali i membri di un’organizzazione danno senso al loro agire. Questi processi sono in parte spontanei, e sfociano spesso in sub-identificazioni, ovvero con l’attaccamento al proprio ufficio, ad uno specifico programma, e via dicendo. Il compito della leadership, suggerisce Simon, è quello di guidare i processi di identificazione sintonizzandoli con gli obiettivi esterni dell’organizzazione, facendo sì che lo spirito di corpo e il professionalismo non siano fini a sé stessi, ma giacimenti di sapere pratico e strumenti di intervento. Negli stessi anni, Alvin Gouldner, rileggendo i nodi irrisolti della teoria weberiana della burocrazia con il suo studio etnografico della celebre fabbrica di gesso, notava come la riorganizzazione possa essere ispirata a un ideale punitivo di burocrazia, ciecamente orientato all’esecuzione di regole che hanno il solo obiettivo marcare il principio di autorità, a prescindere da considerazioni di efficienza. Come per la fabbrica di gesso, il D.O.G.E. ha individuato nell’assenteismo (sotto forma dei contratti di smart-working introdotti durante il periodo COVID-19) il terreno di battaglia. Per Musk e Ramaswamy: “Requiring federal employees to come to the office five days a week would result in a wave of voluntary terminations that we welcome: If federal employees don't want to show up, American taxpayers shouldn't pay them for the Covid-era privilege of staying home” (richiedere ai dipendenti federali di presentarsi in ufficio cinque giorni alla settimana si tradurrebbe in un'ondata di licenziamenti volontari che accoglieremmo con favore: se i dipendenti federali non vogliono presentarsi, i contribuenti americani non dovrebbero pagarli per il privilegio di restare a casa concesso nell'era del Covid).

Le intenzioni non potrebbero essere più chiare: la cessazione dello smart working non è motivata da una valutazione, anche approssimativa, della sua efficienza, ma presentata come una misura funzionale ad una volontà di tagliare personale a prescindere, accompagnata da una rappresentazione della misura come di un privilegio che allenta il controllo democratico sui lavoratori del settore pubblico.

europa vs usa
Woodrow Wilson invitava i suoi connazionali ad abbandonare i sospetti verso i modelli europei.

L’ideologia e le sue conseguenze

La novità del D.O.G.E. non sta nella sua ideologia, ma nella radicalità con cui, in queste prime settimane, sta implementando una strategia di cui il pubblico è informato soltanto sotto forma di meme.

Non siamo pronti a capire questo fenomeno, quanto meno nella scala in cui si sta manifestando. Siamo abituati a pensare che i grandi progetti di riforma siano degli esercizi retorici e che non si realizzino mai del tutto in realtà; che i politici siano più interessanti ad annunciarli che a implementarli; che l’implementazione li normalizzi, inserendoli nell’alveo delle istituzioni esistenti. Il D.O.G.E. rappresenta una configurazione, ideologica e di interessi, che stravolge questa comfort zone intellettuale ponendoci di fronte ad un processo di distruzione amministrativa.

È legittimo essere preoccupati perché non esiste un’alternativa ad apparati burocratici professionali. Maggiore la complessità dei problemi generati da economie avanzate, quella americana lo è più di ogni altra, maggiore sarà il bisogno di regolazione. L’ironia è che alcune delle politiche entrate nel calderone della campagna elettorale dei repubblicani, come la volontà di Robert F. Kennedy di lottare contro le malattie croniche agendo sull’industria alimentare, richiedono maggiore regolazione e capacità amministrativa, non certo uno stato minimo. Stato e mercato sono complementari, non sostituti. Rinunciare al primo vuol dire anche accettare che le transazioni di mercato saranno meno efficienti per il venir meno di quegli elementi che garantiscono la fiducia fra i membri di una società. 
Si sta scrivendo molto sui conflitti di interessi che sarebbero alla base dell’azione del D.O.G.E., ma sarebbe un errore sottovalutare il fervore ideologico da cui è mosso.

Sempre lo studio delle organizzazioni ci mette in guardia rispetto a come l’ideologia possa essere uno strumento di governo pericoloso, nel senso specifico di questo aggettivo. Una leadership arrogante, ovvero interessata esclusivamente alla fedeltà, che intende ottenerla incutendo timore, e infinitamente ottimista rispetto alle proprie capacità (o comunque insensibile ai costi delle proprie azioni), è un fattore di rischio non trascurabile per qualsiasi organizzazione. La sua elevazione a cifra distintiva della nazione-guida spaventa.

 


Marco Di Giulio è docente di Scienze politiche dell'Università di Genova.

di Marco Di Giulio