Teatro a distanza? La quarantena dello spettacolo
Quaresima e quarantena: antiche e nuove chiusure
Domenica 23 febbraio hanno iniziato a chiudere i teatri d’Italia e, con loro, tutta l’attività di prove, laboratori, corsi ecc. Se fossimo stati nel 1630, nel pieno diffondersi della peste manzoniana, le recite si sarebbero comunque interrotte, perché tre giorni dopo, il mercoledì delle Ceneri, è iniziata la Quaresima, i quaranta giorni di digiuno, penitenza e astinenza durante i quali la Chiesa un tempo proibiva gli spettacoli. Quei quaranta giorni di chiusura volevano dire quaranta giorni senza lavoro e senza incassi. Giorni di fame certa per tutti gli artisti che non avessero messo nulla da parte, a meno di non riuscire a trovare qualche altro impiego. Non è più così da secoli, eppure il ricordo e la paura di quel lungo fermo obbligato si sono radicati così potentemente nell’inconscio del palcoscenico, che ancora oggi il colore dei paramenti sacri in Quaresima, il viola, a teatro è il colore della sfortuna.
Se fossimo nel 1630, i teatri avrebbero già riaperto a metà aprile, dopo la Pasqua. Invece siamo nel 2020, a metà maggio e, per quanto si parli di possibili riaperture in giugno, la verità è che per le sale al chiuso e la programmazione regolare i tempi saranno ben più lunghi. Non solo c’è da riorganizzare il pubblico (come e quanti spettatori fare accedere allo spettacolo), ma da ripensare radicalmente un’attività ideativa e produttiva basata sull’incontro vivo e in presenza dei creatori.
La fragilità del teatro
Il fermo dell’esercizio ha significato l’azzerarsi della vendita al pubblico, cioè una crisi improvvisa della liquidità (da qui la campagna #iononchiedoilrimborso). Per dare un’idea: l’Osservatorio culturale del Piemonte ha stimato che, tra il 24 febbraio e il 3 aprile, le perdite nette per lo spettacolo in quella regione ammontino a circa 5,2 milioni di euro. La crisi di liquidità e gli interrogativi sui tempi e i modi delle riaperture stanno intanto smantellando centinaia di nuove produzioni: i nuovi progetti sono stati rimandati, cancellati o mutati radicalmente di formato.
Lo spettacolo dal vivo è però già di per sé una filiera fragile. È caratterizzato da uno squilibrio economico strutturale: per la stragrande maggioranza delle imprese andare in scena vuol dire generare disavanzo. Il finanziamento pubblico che mitiga questo squilibrio in Italia è decisamente limitato: nel 2018 il Fondo Unico per lo Spettacolo1 ha avuto un’incidenza sul PIL dello 0,0196% (del resto, il budget del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo si aggira attorno allo 0,4% del bilancio dello Stato). A questo si aggiunge un quadro giuridico dove i lavoratori, già stremati da forte concorrenza interna, elevata flessibilità e precarietà occupazionale, hanno pochissime tutele e rischiano, in percentuali significative, di essere invisibili al sistema di sostegni emergenziali varati in questi mesi.
1Il FUS è la base finanziaria dell’intervento dello Stato per lo spettacolo dal vivo. Finanzia le fondazioni lirico-sinfoniche, il teatro di prosa in tutta la sua biodiversità (dalla performance contemporanea alle marionette), la musica (lirica ordinaria, concerti, orchestre, bande e cori, dal 2014 anche musica popolare contemporanea), il balletto e la danza, il circo e gli spettacoli viaggianti.
Oltre la crisi economica: il distanziamento fisico di un'arte che è incontro
Ma il punto più grave è che il Covid-19 ha intaccato il nocciolo di senso del teatro. Il teatro nasce nella prossimità non solo ideale, ma anche fisica fra le persone. La sua identità profonda è nel contatto, non nella connessione. Il teatro si e ci nutre della dimensione fisica e relazionale: ci costringe a uscire di casa, a stare in mezzo a sconosciuti, a trovarci anche a pochi centimetri da corpi che sudano e che, del loro sfiorarsi-allontanarsi-toccarsi, fanno un’arte, che è un’arte della vita, come scrisse Adolphe Appia. Sono certa che non mancherà ai teatranti italiani la creatività di pensare nuovi modi di essere in presenza nel tempo del distanziamento fisico. Ma sono anche certa che l’emergenza per il teatro terminerà solo quando finirà la paura sociale della pandemia.