Sei mesi di convivenza con COVID-19: così ha reagito l’oncologia italiana
Continuità delle cure oncologiche durante la pandemia: una sfida
A fine febbraio 2020 l’emergenza sanitaria legata al coronavirus SARS-CoV-2 ha iniziato ad interessare il nostro paese, primo tra gli stati europei, portando all’adozione di misure sociosanitarie senza precedenti al fine di contenere la diffusione del virus sul suolo nazionale. Il Sistema Sanitario ha subito una forte riorganizzazione, nell’allocazione delle risorse e di conseguenza nella pratica clinica. L’Oncologia ha rappresentato un settore che come molti altri ha avvertito in modo significativo gli effetti diretti e indiretti della pandemia. Le prime pubblicazioni di casistiche di pazienti cinesi riportavano infatti come i pazienti oncologici fossero esposti a maggior rischio di complicanze severe nel caso di infezione da SARS-CoV-2. Per questo motivo l’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) forniva, in data 13 marzo, dei suggerimenti per modificare la gestione clinica dei pazienti oncologici, pur in assenza in quel momento di forti evidenze sul tema, al fine di garantire la più adeguata continuità di cura e parallelamente contenere al massimo la trasmissione del virus.
Ciò che deve guidare il lavoro di un medico oncologo sono le evidenze scientifiche
Per questo motivo, in un momento di inevitabili lacune di conoscenza, di fronte a una situazione senza precedenti, i ricercatori e docenti dell'Università di Genova e IRRCS San Martino, dott. Marco Tagliamento insieme al Prof. Matteo Lambertini e al suo gruppo, hanno promosso iniziative che hanno contribuito a fornire dati che descrivessero l’impatto che l’emergenza sanitaria stava producendo sull’oncologia italiana.
Il primo passo è stato la pubblicazione, nella rivista della European Society for Medical Oncology, di una delle prime casistiche europee di pazienti oncologici che avessero contratto l’infezione da SARS-CoV-2. La riflessione chiave di tale pubblicazione è nata dal dato allarmante relativo all’alto tasso di sospensione dei trattamenti oncologici nei pazienti infetti, indipendentemente dalla severità delle manifestazioni cliniche dovute a COVID-19. Il messaggio trasmesso, accolto successivamente da numerosi colleghi, è stato la necessità di garantire la continuità delle cure oncologiche per questi pazienti, tramite risorse e strutture dedicate.
Il secondo filone di ricerca seguito dal gruppo di oncologi UniGe e IRCCS Ospedale Policlinico San Martino si è svolto tramite dei sondaggi, condotti su scala nazionale, che hanno valutato quale fosse stata la reazione del comparto oncologico ai necessari cambiamenti legati alla pandemia in atto.
Come sono cambiate le abitudini oncologiche
Una survey creata dal gruppo di lavoro, promossa e divulgata grazie al contributo di AIOM e del Gruppo Italiano Mammella (GIM), ha raccolto le risposte in forma anonima di 165 oncologi italiani, per indagare come si fossero modificate in epoca COVID-19 le attitudini e le scelte cliniche riguardo al management delle pazienti con tumore della mammella. I risultati sono stati pubblicati nella rivista dell’American Society of Clinical Oncology.
Nonostante la gestione del tumore mammario, sia in fase precoce che in stadio avanzato, non sia sostanzialmente cambiata, sono emerse alcune differenze rispetto all’epoca pre-COVID-19 riguardo il tipo di chemioterapia utilizzata, in quanto una percentuale significativa di oncologi ha preferito schemi di trattamento con intervalli più lunghi tra le somministrazioni per ridurre il numero degli accessi dei pazienti in ospedale, riducendo così il rischio di infezione da SARS-CoV-2. Laddove possibile inoltre, l’84% degli oncologi intervistati ha dichiarato di preferire la via di somministrazione orale degli agenti chemioterapici rispetto all’infusione endovenosa. Si sono registrate poi altre modifiche della pratica clinica (frequenza dell’esecuzione dei controlli ematologici e radiologici laddove indicato), sempre con l‘obiettivo di garantire la sicurezza di pazienti, famigliari e operatori sanitari. Per concludere, oltre l’80% degli intervistati ha dichiarato di aver ridotto, in epoca COVID-19, sia le attività scientifiche, sia le attività di ricerca.
L'interferenza dei farmaci immunoterapici con il Covid-19
Una seconda indagine nazionale da noi coordinata si è invece focalizzata su un tema molto dibattuto: la possibile interferenza dei farmaci immunoterapici (inibitori dei checkpoint immunitari - la nuova frontiera di agenti antineoplastici) con la patogenesi dell’infezione da SARS-CoV-2: "Italian survey on managing immune checkpoint inhibitors in oncology during COVID-19 outbreak". Rimane infatti dibattuto se i pazienti in trattamento oncologico con tali molecole possano essere esposti ad una sindrome COVID-19 più grave.
Il 47% degli oltre cento intervistati ha ipotizzato la possibilità che questo sinergismo prognosticamente sfavorevole esista, ma la quasi totalità dei medici che ha preso parte al sondaggio non negherebbe un trattamento immunoterapico ai propri pazienti solo sulla base di questa potenziale evenienza. Come già evidenziato per gli agenti chemioterapici, anche per gli immunoterapici sono state adottate dove possibile le schedule di trattamento che potessero ridurre il numero degli accessi in ospedale, mantenendo l’efficacia terapeutica. Inoltre, per la maggior parte degli oncologi la gestione degli effetti collaterali di tali farmaci ha rappresentato un problema aggiuntivo, in quanto alcuni di questi (in particolare tosse, difficoltà respiratoria e diarrea) entravano in diagnosi differenziale con i sintomi di COVID-19.
A volte l'eccellenza è sapersi adattare
I risultati di questi studi hanno portato dei dati concreti a dimostrazione dell’impatto avuto dall’emergenza COVID-19 sull’oncologia italiana, concentrandosi sulle modifiche degli atteggiamenti degli oncologi verso la gestione dei pazienti rispetto all’epoca precedente la pandemia. È emersa un’importante capacità di adattamento dei medici italiani al fine di continuare a garantire la miglior qualità di cura e, allo stesso tempo, ridurre al minimo il rischio di contagio dei pazienti, trovandosi essi in uno stato di fragilità dovuto sia alla loro condizione clinica, sia ai trattamenti ricevuti.
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