L'Università di Genova a COP26 Glasgow

L’ONU riunisce annualmente quasi tutti i Paesi della terra per i vertici globali sul clima chiamati COP – Conferenza delle Parti. Il 26esimo vertice annuale (da qui il nome COP26) è stato presieduto dal Regno Unito e si è svolto a Glasgow, dal 31 ottobre al 12 novembre 2021.

A una settimana dalla conclusione della COP26 di Glasgow, facciamo il punto con Adriana Del Borghi, prorettrice alla sostenibilità dell’Università di Genova, che ha partecipato ai negoziati come delegata UniGe.

Adriana Del Borghi COP26 Glasgow
Professoressa, con che ruolo UniGe partecipa a queste conferenze?

A.D.B.: L’Università di Genova, insieme a poche altre Università italiane, da oltre 10 anni è accreditata a partecipare come osservatore ai lavori delle Nazioni Unite sul clima, le cosiddette Conference of Parties (COP). L’accreditamento è stato ottenuto da UniGe a seguito di un lungo percorso che ha premiato le nostre competenze specifiche sul tema e ci ha permesso di essere inclusi tra le organizzazioni non governative di ricerca che possono assistere come osservatori ai negoziati.
Non si tratta quindi di un ruolo decisionale né consultivo, ma ci permette di essere presenti là dove la storia si compie così da poter trasmettere l’esperienza agli studenti e ai giovani in generale.

Quali sono i principali risultati della COP26?

A.D.B.: Intanto è necessario ricordare che l’Accordo di Parigi del 2015, legalmente vincolate per i firmatari, all’Articolo 2 richiama la necessità di “mantenere l'aumento della temperatura media mondiale ben al di sotto di 2 °C rispetto ai livelli preindustriali” proseguendo “l'azione volta a limitare tale aumento a 1,5 °C”, riconoscendo che ciò potrebbe ridurre in modo significativo i rischi e gli effetti dei cambiamenti climatici. Il concetto era quindi già presente nell’accordo del 2015 e già si affermava la consapevolezza che gli sforzi dovevano essere rivolti a limitare l’aumento della temperatura entro 1,5 gradi. Il Glasgow Climate Pact, la decisione emersa dalla COP26, riafferma e rafforza questo principio evidenziando la necessità di azioni rapide, profonde e prolungate tra cui la riduzione delle emissioni globali di gas serra del 45% entro il 2030, rispetto al 2010, raggiungendo la neutralità climatica intorno alla metà del secolo. L’Accordo di Parigi citava “la seconda metà del corrente secolo”. Quindi, Glasgow dà più forza al limite di 1,5 gradi e anticipa l’obiettivo della neutralità climatica rispetto a Parigi, introducendo lo step intermedio al 2030.

Glasgow inoltre include negli obiettivi intermedi al 2030 anche il metano, gas serra 28 volte più potente dell’anidride carbonica. Il metano ha assunto un ruolo strategico i primi giorni della COP26 quando circa la metà dei Paesi partecipanti ha firmato un documento, con il quale i sottoscrittori si impegnano a tagliare entro il 2030 le emissioni di gas metano del 30% rispetto ai livelli del 2020, il cosiddetto Global Methane Pledge.   

Un altro risultato importante della COP26, per ora dal punto di vista semantico, ma presto dal punto di vista degli investimenti, è il fatto di aver scritto chiaramente che il cambiamento climatico è causato dai combustibili fossili e in particolare dal carbone. Nell’Accordo di Parigi non era presente nessun accenno a una specifica fonte fossile. Negli ultimi tre giorni della COP sono circolate tre diverse bozze del testo caratterizzate da modifiche proprio su questo punto, a dimostrazione della sua valenza strategica. La decisione finale, a seguito della proposta dell’India supportata dalla Cina che ha alleggerito il vincolo sulla necessità di accelerare gli sforzi per eliminare il carbone (“phase out”), riporta il termine “phasedown” che significa riduzione graduale del carbone “anabated”, ovvero le cui emissioni di anidride carbonica non sono catturate con tecniche di cattura e stoccaggio geologico (CCS, Carbon Capture and Storage). Sicuramente un obiettivo meno ambizioso che però, citando Greenpeace, lancia il segnale che l’era del carbone sta finendo. Altro tema strategico è stato quello dei sussidi ai combustibili fossili. Nel testo finale si parla di phase-out in questo caso, ma riferito ai sussidi finanziari dati ai combustibili fossili ritenuti inefficienti (“phase-out of inefficient fossil fuels subsidies”). Precedentemente, prima della fine della COP, era stato siglato un documento, sottoscritto da 25 Paesi ed istituzioni finanziarie, tra cui gli USA e l’Italia, con l’impegno a porre fine a ogni nuovo sostegno pubblico diretto di progetti relativi allo sfruttamento di fonti energetiche fossili “unabated” dopo il 31/12/2022.

Sempre sui combustibili fossili, ma in questo caso specificatamente su petrolio e gas, da segnalare l’iniziativa lanciata da Costa Rica e Danimarca, Beyond Oil and Gas Alliance (BOGA), la coalizione internazionale in cui governi e stakeholder mettono in campo soluzioni utili per facilitare la riduzione progressiva della produzione di petrolio a cui hanno aderito Francia, Groenlandia, Irlanda, Quebec, Svezia e Galles come “core members”  e California, Nuova Zelanda e Portogallo come “associate members”. L’Italia ha aderito come “friend”.

Tra i temi maggiormente presenti a Glasgow vi è poi sicuramente l’adattamento ai cambiamenti climatici, ovvero il modo in cui i Paesi e le comunità si adattano alle conseguenze dei cambiamenti climatica già in atto. Proprio a dimostrazione che l’adattamento sarà il tema cruciale dei prossimi decenni e che questo necessiterà significativi stanziamenti economici per essere realizzato, durante la COP è stato dichiarato che saranno destinati 232 milioni di dollari al Fondo di adattamento (Adaptation Fund), il fondo istituito dal Protocollo di Kyoto nel 2001 per aiutare i Paesi meno sviluppati ad adattarsi alle conseguenze della crisi climatica.

Riconoscendo il ruolo cruciale delle foreste per il loro contributo non solo alla riduzione delle emissioni di CO2 ma anche alla costruzione della resilienza, da sottolineare in particolare l’accordo siglato tra oltre 130 paesi, che rappresentano oltre il 90% delle foreste del mondo tra cui il Brasile e anche l’Italia, per “fermare e invertire” la deforestazione entro il 2030.

Infine, i temi su cui a Glasgow non si è trovato un accordo soddisfacente e per i quali sarà necessario concentrare l’attenzione alle prossime COP, la COP27 in Egitto e la COP28 negli Emirati Arabi Uniti, riguardano la finanza e la giustizia climatica. Mentre per la prima nel documento finale si legge: “si nota con profondo rammarico che l’obiettivo di mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 in favore dei Paesi in via di sviluppo, nel contesto di azioni di mitigazione e trasparenza nell’implementazione, non è stato ancora raggiunto”, per la giustizia climatica, citata in premessa e declinata nel testo con il termine “loss and damage”, letteralmente perdite e danni provocati dal cambiamento climatico a intere popolazioni e culture, il Patto di Glasgow riconosce l’urgenza del tema, ma non definisce né fondi dedicati né specifiche strutture per gestirli.

Queste decisioni prese a livello di Nazioni Unite come influenzano le strategie nazionali e locali?

A.D.B.: Per raggiungere gli obiettivi dell'accordo di Parigi, siglato nel 2015 durante la COP21, ogni cinque anni i singoli Stati devono trasmettere i propri contributi determinati a livello nazionale o NDC (dall’inglese "nationally determined contributions"). A livello europeo questi obiettivi prevedono il raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050, con l’impegno di ridurre le emissioni di almeno il 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. L’Europa quindi ha una politica climatica più ambiziosa rispetto a quanto viene stabilito nelle COP e mira ad un ruolo di leadership in campo climatico. Per una ripresa sostenibile, ma anche per ottenere un vantaggio competitivo rispetto ad altri Paesi esportatori di materie prime ed energia. A livello nazionale quindi l’Italia, come tutti gli stati membri, deve redigere e aggiornare i propri piani, tra cui il Piano Nazionale Integrato per l'Energia e il Clima (PNIEC) ed il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC) per renderli coerenti con la programmazione comunitaria. Nella specifica situazione europea quindi, le decisioni assunte a livello di Nazioni Unite in termini di mitigazione non hanno un impatto diretto a livello nazionale, se non la condivisione di un approccio comune a livello globale verso la decarbonizzazione e il contenimento del riscaldamento globale a +1,5 gradi.

A livello locale invece, la rilevanza mediatica e l’impatto sull’opinione pubblica dell’emergenza climatica rendono sempre più importante la sensibilizzazione della cittadinanza e la necessità di formazione specifica di alto livello su temi legati al contributo di ogni singolo cittadino alla riduzione delle emissioni di gas serra, ma anche all’adattamento ai cambiamenti climatici e alla giustizia climatica. E questo deve essere il ruolo degli enti di formazione, tra cui la scuola e le università.

Come può UniGe contribuire al raggiungimento di obiettivi globali?

A.D.B.: La comunità di UniGe ha i numeri di una città di medie dimensioni, quindi la sua impronta di carbonio non è trascurabile. Inoltre, la sua missione educativa la deve spingere ad anticipare i vincoli normativi ed a proporsi come modello e living lab di tecnologie e comportamenti sostenibili.

Per ridurre bisogna capire da dove si parte e UniGe, già dal 2014, quantifica il proprio inventario di emissioni di gas serra misurando annualmente la propria carbon footprint. Nel 2019 poi, firmando la lettera di emergenza climatica, UniGe si è impegnata a diventare carbon neutral entro il 2030, anticipando di 20 anni gli obiettivi comunitari (come riporta il Bilancio di sostenibilità 2020).

Non mi piace elencare solo quello che è stato fatto (UniGe – Dichiarazione Emergenza Climatica) perché ancora tanto è necessario fare, a partire dalla mobilità studentesca e dalla riduzione dei consumi energetici, le due voci che maggiormente pesano sull’impronta climatica di UniGe. All'inizio del prossimo anno sarà finalizzato un Piano per la Neutralità Climatica, predisposto dal Gruppo di lavoro UnigeSostenibile insieme all’Energy Manager e al Mobility Manager di Ateneo, che sarà condiviso con la comunità studentesca e dovrà essere approvato dagli organi di Ateneo.

Tale documento sarà corredato da un Piano di Resilienza Climatica che dovrà inserirsi in quello della città di Genova e della Regione Liguria, in cui analizzare le vulnerabilità climatiche e i relativi rischi e proporre azioni per migliorare l’adattabilità ai cambiamenti climatici e mitigarne l’impatto.

Che messaggio possiamo rivolgere agli studenti e ai giovani in generale?

A.D.B.: I giovani sono la spinta che deve orientare le politiche climatiche globali e le azioni a livello locale. Ma non parliamo di future generazioni, parliamo delle generazioni attuali. Quelle che nel 2030 e nel 2050 dovranno avere la possibilità di decidere il loro presente e il loro futuro agendo su una situazione che, se non mettiamo un freno ora, non sarà più reversibile. I ragazzi stanno subendo oggi le scelte di chi questa situazione l’ha creata e non possono incidere se non con la loro voce, le loro critiche, il loro stimolo anche duro.

Bene quindi l’introduzione e la messa a sistema della conferenza dei giovani sul clima, la Youth4Climate, perché sia ripetuta tutti gli anni.
Bene l’azione di movimenti giovanili come Fridays For Future.
Bene la costituzione di associazioni studentesche come Unigeco.
Bene il duro Bla Bla Bla, da chi non vuole più solo chiacchiere.

di Eliana Ruffoni