“Quattro soldi per sublimare una mancanza” o del teatro che c’è

Riflessioni

Le riflessioni sullo standby del teatro sono tante, in questi giorni, il colpo d’occhio è quello delle lucine di natale. Ti colpiscono nel loro insieme e sono importantissime nella propria individualità. Tutte. Soprattutto hanno colori diversi e varie intensità di luce. Ma ognuna, allo stesso modo, si ribella al buio.
E indiscutibilmente buio è, l’assenza di teatro; per molti e in qualche modo, per tutti.

Teatro - Unige

Assenza

Una assenza che si avverte nelle variabili di diverse istanze che rimbalzano da un contesto all’altro, economico, sociale, famigliarmente allargato se vogliamo, in senso ampio.
E una delle riflessioni indotte, è che siamo stati costretti ad un isolamento che forse bene e meglio ci restituirà un senso di condivisione a cui, per vizio di forma, probabilmente non si era più abituati, o di cui si era persa la sensazione, la sostanza.
Forse per assecondare i nuovi sensi e le nuove velocità della società contemporanea. Probabilmente perché il ritmo individuale è più facilmente ballabile. Ma la mancanza che più si avverte, forse, è quella (ancora troppo inconscia) di un contesto dimenticato: quello del rito collettivo.

Condivisione

Nel semicerchio dello Studio Melato, a dicembre, quando l’impossibilità di varcare la soglia di uno “spazio condiviso” era talmente impensabile da non suscitarne neanche la stessa ipotesi, un duro Roberto Mangiafoco Latini, nel bel mezzo dello spettacolo, ha chiesto alla platea:

  • C’è qualche attore in sala?
  • Silenzio.
  • Un… volontario?
  • Silenzio.

Cercava un rivenditore di panni usati che comperasse l’abbecedario di Pinocchio. Per quattro soldi. Una spaccatura della quarta (quinta?) parete che avrebbe identificato una cucitura con un passato del teatro ormai troppo remoto: la condivisione di un evento; un atto, un gesto. Un ritmo condiviso e condivisibile.

Un esempio grasso, quello di questo “silenzio”, e evidentemente relativo ad una recita soltanto o forse a poche, ma indicativo di quanto troppo forte sia diventata l’individualità nel fruire il rito teatrale. E quanto troppo debole, la coscienza di prendervi parte. Forse.

Quinte del teatro - UniGe

Appartenenza

Nelle scorse settimane, giusto il tempo di metabolizzare quanto accadesse rispetto all’ascesa del fenomeno pandemico, si è verificato tra gli altri, un evento (apparentemente) contemporaneo, ossia il persistere dei flash mob musicali delle ore diciotto, ad oggi già sfatati.

È interessante immaginare quanto questi abbiano rappresentato, per spessore emotivo, per commozione suscitata, per senso di sublimazione del tragico, e soprattutto per l’aver posto in essere un atto collettivo svolto da una mob di misura nazionale, qualcosa di molto più vicino al concetto di teatro di quanto non facesse più il teatro in senso stretto; ormai; quello a cui (eravamo) abituati.
Il senso catartico, il commuoversi in un luogo intrinseco della propria coscienza, la dinamica di appartenenza che il teatro produceva e dalla quale ha preso vita, già dal V secolo a.c., si è rivelata all’improvviso sotto i nostri occhi in un momento in cui nella nostra società, il teatro era stato chiuso. E si è rivelata autenticamente. Si è rivelata perché l’essere umano ne ha avuto assoluto bisogno. Ossia, per necessità.
Allora quanto, di tutto questo, il teatro contemporaneo contiene, ancora?
La domanda nasce proprio nella misura in cui una riflessione rende necessaria l’interrogazione: viviamo ancora questo senso atavico di appartenenza ad un tutto unico quando entriamo in un teatro? E soprattutto, siamo consci di quanto (e se) ci sia necessario?

Flashmob coronavirus - UniGe
Flashmob coronavirus - Foto da www.primalariviera.it

Unione

Grazie ai nuovi mezzi-piattaforme e alla nostra acquisita mentalità sociale, la mobilitazione verso nuove forme di scambio è esplosa nell’internet come un fuoco d’artificio: dirette, sondaggi, rubriche. Letture, proposte, approfondimenti. E ancora domande, aggregazione, condivisione. Tentativi. Messe a fuoco.
E forse ancora una volta assistiamo a fenomeni che rappresentano teatro nell’atto stesso di volerne sublimare la tragica mancanza. Ossia rituali di interconnessione che garantiscono la co-esistenza di attore e reattore. L’unione delle parti che attraverso i ruoli (inconsci) permette il sacrificio del demone e la purificazione dal dolore.

Ed ecco che partecipare attivamente a questa mobilitazione teatrale che teatro non si può, nelle già esistenti o potenziali forme, avvalora con coerenza la natura necessitante del teatro che non c’è. E unisce. E arricchisce, anche.

Arricchimento

Potrebbe dunque rivelarsi cosa buona trattenere queste forme anche nel prossimo presente; anche quando la skenè sarà di nuovo pronta a rivelarci ciò che cela; anche quando ci porteremo silenziosamente di nuovo a sedere, al buio, pronti, in attesa di vivere l’extra-ordinario.
Di certo non esistono verità oggettive nella misura in cui ognuno di noi si sente padrone di far proprie delle certezze, come suggerirebbe Karl Popper.
Ma fatto sta che il teatro manca. Nel suo essere una necessità; nel suo essere un atto, attraverso il quale, sistematicamente, più che fare qualcosa, come appartenenti alla razza umana, semplicemente qualcosa sentiamo di essere.

di Angela Zinno