La riforma della giustizia penale
Il 23 settembre scorso il Senato della Repubblica ha approvato in via definitiva la cd. riforma Cartabia della giustizia penale. Si tratta di una manovra legislativa che prende le mosse da un dato drammatico, ossia l’irragionevole durata dei processi penali nel nostro Paese.
Giustizia per nessuno
Non è un problema recente. Centoventi anni fa, in un celebre discorso pronunciato alla Camera dei deputati, un grande penalista liberale, Luigi Lucchini, definì il rito criminale italiano “il più lento d’Europa”. Le statistiche europee ci dicono che nulla è cambiato: in Italia, il primo grado di giudizio penale ha una durata tripla rispetto alla media europea, mentre l’appello dura sei volte la media europea. Questi semplici dati danno la misura della gravità della crisi in cui versa il sistema processuale penale italiano, che non è capace di dare risposte: né agli imputati, troppo spesso costretti a subire una “pena processuale” interminabile, salvo poi venire prosciolti in un numero abnorme di casi; né alle vittime, a loro volta mortificate da un rito labirintico che non risponde al bisogno di giustizia; né alla comunità, la cui fiducia nelle istituzioni giudiziarie è scemata nel tempo.
Una riforma ambiziosa del processo penale e del sistema sanzionatorio
Il disegno di legge approvato dai due rami del Parlamento si presenta alquanto articolato e incide sull’intero sistema penale, con tante novità che si possono ordinare secondo quattro chiavi di lettura.
La prima coincide con una forte spinta per la digitalizzazione del processo penale. Se nel civile è da metà degli anni Dieci che si è diffuso il processo telematico, nel penale si era rimasti indietro, almeno fino alla pandemia; la legge-delega, prendendo atto delle novità introdotte nell’ultimo anno, segna una rotta chiara nel senso della valorizzazione delle tecnologie (sia con riferimento alla documentazione degli atti processuali, sia con riguardo alle notifiche e al deposito degli atti). Questo percorso viene inserito nell’ambito di un piano per la transizione digitale dell’amministrazione della giustizia.
La seconda direttrice riguarda una serie di misure finalizzate a ridurre la domanda di giustizia penale, con l’obiettivo di diminuire il numero di cause che vengono definite all’esito del giudizio. Tra queste vanno annoverate: l’espansione della perseguibilità dei reati a querela; l’ampliamento della non punibilità per particolare tenuità del fatto; la responsabilizzazione del pubblico ministero nella scelta di esercitare l’azione penale; la modifica della regola di giudizio per l’udienza preliminare; il rafforzamento dei riti alternativi; i criteri di priorità dell’azione penale; l’introduzione di un’udienza filtro davanti al tribunale monocratico.
Il terzo filo rosso riguarda la definizione di rimedi per l’irragionevole durata del procedimento penale. Tra questi vanno segnalati: per la fase preliminare, un nuovo meccanismo di messa in mora del pubblico ministero che ritardi la decisione sull’elevazione dell’accusa; per il giudizio di primo grado, la prescrizione; per le impugnazioni, ossia le fasi di controllo sulla decisione di prime cure, il nuovo istituto della improcedibilità. Quest’ultimo istituto ha fatto molto discutere, ma mi pare si tratti di una novità positiva che finirà per incentivare pratiche organizzative virtuose, senza determinare quell’amnistia generalizzata evocata da taluni commentatori.
Il quarto profilo annovera una serie di riforme sostanziali volte a ridurre il ricorso alla pena carceraria, con la rivitalizzazione della pena pecuniaria e delle sanzioni sostitutive.
La valorizzazione della vittima e la giustizia riparativa
Se ne è parlato molto meno, ma la riforma introduce, per la prima volta nell’ordinamento italiano, una disciplina organica della giustizia riparativa. Si tratta di un paradigma di giustizia alternativo a quello tradizionale nel quale l’obiettivo non è tanto applicare una sanzione, ma ricostruire il legame, il tessuto sociale, spezzato dalla commissione del reato: in questo modello la vittima acquista una rinnovata centralità.
Le misure organizzative
La riforma Cartabia prevede poi misure innovative sul versante dell’organizzazione giudiziaria. Al fondo, vi è la consapevolezza che la riduzione della durata media dei processi penali del 25% – impegno che risulta tra le condizionalità dell’intero recovery plan – non potrà essere conseguito con le sole modifiche alle norme sostanziali e al rito penale. Viene dunque introdotto, anche in ambito penale, l’ufficio per il processo e si introduce un apposito comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale, sulla ragionevole durata del procedimento e sulla statistica giudiziaria, quale organismo di consulenza e di supporto nella valutazione periodica del raggiungimento degli obiettivi di accelerazione e semplificazione del procedimento penale.
Un primo bilancio
In conclusione, date le difficili condizioni politiche – determinate da una maggioranza assai eterogenea e con visioni talora contrapposte sulla giustizia penale – e i tempi molto stretti imposti dalla Commissione europea, mi pare si possa dare un giudizio positivo della riforma.
Certo, vi sono profili significativi che sono rimasti fuori dalla delega – penso soprattutto alla rivisitazione del ruolo della parte civile e alla struttura dell’appello – e vi sono aspetti critici, soprattutto nella disciplina dell’istituto dell’improcedibilità. Ma mi sembra che la strada imboccata sia quella giusta: una strada che mira a modernizzare la giustizia penale come servizio che va reso ai cittadini – quale che sia la loro posizione: imputati, vittime o componenti della comunità colpita dal reato – nel pieno rispetto, tanto dei principi scolpiti dalla Costituzione, quanto dei canoni desumibili dalle fonti europee.
Mitja Gialuz è Professore ordinario di Diritto processuale penale presso il Dipartimento di Giurisprudenza.