9 novembre 1989

Il crollo del muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda
 

Si celebra quest’anno il trentesimo anniversario del crollo del muro di Berlino, il simbolo più odioso della cortina di ferro che divise l’Europa in due blocchi e l’immagine più rappresentativa della guerra fredda che contrappose per più di quaranta anni gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.  
La sera del 9 novembre 1989 un funzionario della RDT, Günther Schabowski, rispondendo a una domanda del corrispondente italiano dell’ANSA, annunciò, in maniera estemporanea, che le misure decise dal regime della Germania dell’Est per facilitare i viaggi dei cittadini avevano effetto immediato. La notizia, grazie alla televisione, circolò immediatamente e la sera stessa decine di migliaia di berlinesi si diressero festanti verso il muro per oltrepassare i posti di frontiera e dirigersi a Berlino Ovest, superando il confine che aveva diviso la città in due parti non comunicanti dal 1961 e che era costato la vita a centinaia di persone, che avevano cercato invano di fuggire da Berlino Est.
Il 9 Novembre 1989 è così diventato il simbolo della fine della Guerra Fredda, della vittoria degli Stati Uniti sull’Unione Sovietica, dell’ordine liberale su quello socialista, della fine dei regimi comunisti in Europa orientale, ma è stato anche l’inizio di una rivoluzione che ha portato alla riunificazione della Germania e all’implosione dell’URSS, trasformando radicalmente gli equilibri europei.
In realtà il crollo del muro di Berlino è stato solo il culmine di un processo molto più lungo, che si sviluppò tra la seconda metà degli anni Ottanta, dopo l’arrivo di Mikhail Gorbačëv alla segreteria del PCUS e il 1991, anno della dissoluzione dell’Unione Sovietica, le cui radici possono essere fatte risalire ai grandi mutamenti degli anni Settanta, quando la distensione tra Est e Ovest, aumentò gli scambi economici e commerciali tra le due parti d’Europa e promosse la formazione di reti di dissidenti, che contestavano il carattere fortemente repressivo dei regimi comunisti che governavano i paesi dell’Europa orientale.

Tra i protagonisti che resero possibile la fine della guerra fredda, va sicuramente ricordato il segretario del PCUS Mikhail Gorbačëv, che tentò coraggiosamente, ma senza successo, di riformare il sistema politico ed economico dell’Unione Sovietica, grazie alla perestroika e alla glasnost. La perdurante inefficienza dell’economia sovietica, incapace di competere con quella tecnologicamente più avanzata degli Stati Uniti di Ronald Reagan e prosciugata dalla lunga guerra in Afghanistan, accelerò la fine dell’URSS.  
Il grande merito di Gorbačëv è stato quello di accettare pacificamente le rivoluzioni di velluto nei paesi dell’Europa orientale, rinunciando alla dottrina della sovranità limitata e acconsentendo alla formazione di regimi democratici in Polonia, in Ungheria, in Cecoslovacchia e nella Germania dell’Est, senza inviare i carri armati, evitando così qualsiasi spargimento di sangue, come invece era successo a Berlino nel 1953, a Budapest nel 1956 e a Praga nel 1968. Mosca rinunciava al suo impero, perché non riusciva più a sostenerne gli oneri.
Il regime della Germania dell’Est era stato il più restio ad accettare i cambiamenti in atto negli altri paesi dell’Europa orientale, ma la decisione del governo ungherese di aprire le frontiere con l’Austria nell’estate del 1989 provocando il deflusso di migliaia di tedeschi orientali, le manifestazioni di protesta scoppiate nelle principali città tedesche e la visita di Gorbačëv in ottobre, quando dichiarò profeticamente “la storia punisce chi arriva tardi”, segnarono la fine del regime di Honecker, aprendo la strada ai rivoluzionari cambiamenti del 9 novembre 1989.

di Maria Eleonora Guasconi